Un gatto in una cesta, una tazza di tè e una grande porta finestra, che illumina i collage di Alice Colombo (Cassano d’Adda, 1981; vive e lavora a Melzo).
«Non riuscirei a lavorare in un ambiente senza luce. Eppure per qualche anno ho fatto passe-partout nel seminterrato di una galleria. Era bello perché mi sono passate tra le mani tante stampe: Goya, Picasso, Dürer… Sono sempre stata molto precisa e questa qualità è stata apprezzata, nel momento in cui dovevo incorniciarle.
Forse da questo mi è rimasta la passione per la carta segnata dal tempo e le vecchie cornici, che cerco nei mercatini, piccole, particolari. La scorsa estate ne ho trovate due in legno dorato, con una coccarda. Non ho ancora pensato a un lavoro adatto, ma sono contenta di averle lì, perché quando le cerco non le trovo. Succede la stessa cosa anche nei miei collage, quindi comincio a sfogliare le riviste, finché non individuo l’elemento che ho in mente».
I giornali sono la fonte principale del tuo lavoro.
«Uso riviste di giardinaggio e di arredamento, da cui traggo gli elementi delle composizioni, che a volte ritaglio, a volte disegno. Parto con un’idea, che man mano si modifica. Uso una punta secca per incisione per ritagliare le immagini. Il segno non preciso dato dal punteruolo mi piace esteticamente, soprattutto per gli elementi naturali. Il fatto di impiegare del tempo per fare questa operazione mi permette di pensare, è il momento che mi concedo per decidere da che parte andare».
Essendo elementi presi da fonti diverse è difficile trovare un equilibrio?
«Con il passare del tempo sono diventata più veloce nella scelta delle immagini. Senza che siano ritagliate so che staranno bene sulla tela. La bambina, invece, è l’ultima figura che disegno, per stabilirne al meglio le proporzioni nell’economia generale del quadro, in cui tutto è legato».
La carta gigliata, al rovescio, è una costante delle tue opere, un segno distintivo.
«È nato tutto un po’ per caso, in un colorificio in cui ne ho visto un pezzo e l’ho preso. Non era neanche un foglio intero. Ora, non appena entro mi chiedono. “Carta gigliata?”. Per me ha un significato molto importante lavorare su questo materiale: il paesaggio rappresentato acquista una dimensione intima».
Su di essa si svolgono le vicende di una bambina, ulteriore elemento caratteristico.
«Sì, nel tempo ho trovato il soggetto che mi interessava di più, per lo sguardo semplice che hanno i bambini sulle cose, libero da pregiudizi. Mi piace pensare che sia il punto di contatto con chi guarda, perché è l’immagine più semplice che c’è. Nella figura umana è facile riconoscersi, è il canale d’ingresso per immedesimarsi nell’opera e poi vederci la propria storia. Io racconto la mia, però ciò che succede a me è un po’ quello che succede a tutti. Sono esperienze che io rappresento con i miei simboli, a cui sono affezionata e che uso più spesso, poi ognuno vi legge le proprie vicende».
La bambina, dunque, è il tramite che conduce nel quadro. Anche i fili potrebbero essere considerati uno strumento di collegamento, per passare dalla realtà alla dimensione pittorica.
«Pur essendo solo una linea, il filo può avere molti significati, perché consente di tracciare e rendere visibili le connessioni tra le cose».
Crei rapporti tra oggetti quotidiani, che sono gli stessi che potremmo avere sulle mensole delle nostre case o all’interno dei cassetti, con riferimento alla carta gigliata.
«Sì, infatti, per esempio, la teiera rossa che ho inserito in alcuni dipinti era di mia nonna. Come per le cornici, a volte mi piace prendere degli oggetti che non so ancora come userò, ma che hanno un nonsoché che mi colpisce istintivamente».
Nessuno degli elementi disegnati che inserisci nelle opere è inventato?
«Non invento nulla, sta tutto lì, in quello che mi circonda. Allora faccio un lavoro di documentazione raccogliendo immagini dalle riviste e dal web o fotografando ciò che mi piace. Con la bambina, per esempio, a volte non so esattamente quale debba essere la sua posa, così comincio a guardare sui giornali, finché non vedo una figura che mi suggerisce quella giusta. Alla fine, credo non conti tanto la fantasia – anche perché non penso di esserne particolarmente dotata – ma è dall’osservazione della realtà che hanno origine le intuizioni. L’opera è il luogo dove metto in evidenza i vari passaggi, i legami tra gli oggetti».
Questi collegamenti sono ciò che ti consente di allontanarti dall’illustrazione?
«Dal didascalico, un insegnamento di un mio professore del liceo artistico. Dovevamo fare un lavoro riferito a un brano letterario e io avevo inserito molti elementi che richiamavano il testo. Il professore mi disse questa parola, didascalico, che io non sapevo neanche esattamente cosa significasse. Col tempo mi sono educata a non esserlo. Secondo me, la differenza rispetto all’illustrazione è nella creazione di cortocircuiti, nell’inserimento di elementi che apparentemente non si legano a tutto il resto. Un’opera deve vivere autonomamente, deve far scattare qualcosa, in modo che chi guarda vada in profondità».
Seppur ci siano degli elementi costanti, nelle tue opere c’è stata un’evoluzione. La bambina è cambiata, ci sono nuovi simboli ricorrenti.
«Cerco sempre di evolvermi, magari attraverso piccoli cambiamenti. Ora sto lavorando molto di più sul disegno. Prima era sufficiente un disegno lineare, ora c’è bisogno di chiaroscuro e qualche velatura di acquerello. È un modo per mettere qualcosa in più di me, per svelare chi sono in ciò che faccio».
Un cambiamento evidente è stato l’inserimento del nero.
«Sì, è la componente più immediata. Si è sviluppata durante la residenza C.A.P.A. nel 2011 a Benevento, il cui tema era legato alle Janare, le streghe della tradizione locale. Lì ho capito che il nero poteva essere il contraltare che mancava, rispetto alla luce prevalente nel lavoro. Visivamente mi ha consentito di far emergere il disegno e il collage e trovo che questo possa essere valido anche a livello metaforico. Le situazioni negative, infatti, hanno la capacità di rendere evidenti alcuni aspetti che solitamente passano inosservati».
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