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Romanticismo cinematografico al Musée d’Orsay

Al Musée d’Orsay approda la seconda tappa di una mostra già tenutasi con profitto presso lo Städel Museum di Francoforte: L’ange du bizarre. Le romantisme noir de Goya à Max Ernst. Un argomento così trasversale, ricco di malia sulfurea, quale il romanticismo dark, pare confezionato su misura per spirare un richiamo magnetico nei confronti del pubblico. Quest’apertura mediatica, quasi si schiudesse con un Apriti, Mefistofele! un antro maledetto, è così ricca di potenzialità comunicative, che il museo parigino ha pensato bene di diffondere un trailer, in cui le statiche immagini dei dipinti si animano comparendo come presenze inquietanti.

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Tutto molto bizarre, per certi versi: ma non è una furbata mediatica. Prima di tutto, perché “i versi” sono in parte quelli letterari: l’aspetto interessante dell’esposizione è quello di ricostruire il romanticismo nero, dall’ultimo quarto del ‘700 fino alla riscoperta nell’arte surrealista, con un’intelligente sinestesia, che dia fiato visivo alla pagina di Edgar Allan Poe – dal cui racconto L’angelo del bizzaro prende il titolo – o di Victor Hugo, non meno di certe esalazioni calamitanti delle pellicole di Buñuel, Murnau e Fritz Lang. Un “composto delle arti” che si legittima da un lato per la vena platealmente letteraria di tanto romanticismo, imbevuto delle pozioni di Milton, Dante e Shakespeare, dall’altro con l’assunzione del cinema come campo di sperimentazione alchemica prima dell’Espressionismo tedesco, poi del Surrealismo.

Se ne potrebbe discutere all’infinito, disperdendo lo Stige del discorso in un estuario di rivoli: tanto l’idea generale quanto l’ampia selezione di 200 opere (pitture, arti grafiche, sculture e rappresentazioni cinematografiche) darebbero possibilità di una navigazione ipertestuale.

Dal canto nostro, vorremmo osservare una curiosa assonanza di tono, coerente con la polifonia artistica dell’esposizione, tra il trailer realizzato dai curatori e l’esprit di un film anch’esso intimamente sinestetico: una pellicola di suggestione letteraria, con più di un’immagine tratta da dipinti. Ed il solco narrativo, non a caso, s’inscrive entro il medesimo filone “storico-immaginifico” sondato dalla mostra dell’Orsay: Gothic, infatti, è il titolo della pellicola di Ken Russell, che racconta da par suo la genesi dell’ispirazione di Mary Shelley per la stesura del Frankenstein, dopo una notte popolata di incubi e premonizioni nella villa di Ginevra di Lord Byron, insieme all’amante di lei, Percy Shelley, alla sorellastra della scrittrice ed all’instabile medico del padrone di casa, quel John Polidori che proprio a Byron sembra s’ispiri per la stesura, alcuni anni dopo, de Il vampiro.

L’episodio è realmente accaduto: una seduta spiritica notturna seguita da una tenzone di racconti di fantasmi. Questo viaggio allucinato nei recessi della mente, abissi che il Surrealismo riaprirà non senza disseppellirne certe mostruosità, in Gothic di Ken Russell compone in effetti un trait d’union tra l’immagine surreale e l’essudazione malefica del Gotico: basterebbe una scena come quella del seno della sorella di Claire, sorellastra di Mary, che si trasforma in un paio di occhi, per avvertire il sottofondo à la Magritte di certa imagerie di Russell, in particolare pensando al dipinto Lo stupro (1934); così come il singolare automa orientale che si denuda per Percy Shelley, ma lo bacchetta quando questi cerca di toccarne il pube meccanico, fa pensare a La filosofia nel boudoir (1966) del surrealista belga (con l’implicito omaggio letterario alla violenza dell’erotismo e del desiderio nell’omonimo scritto di Sade), e – se si vuole – anche a certi corpi snodati, a metà tra ripulsa ed attrazione, di Hans Bellmer.

Renè Magritte, Lo stupro, 1934
Renè Magritte, La filosofia nel boudoir, 1966
Scena da Gothic di Ken Russell, con un automa da boudoir di Magritte

Ma è un’altra l’immagine simbolo del film. Ed è bene fare tesoro della parola “simbolo”, se si considera che il Simbolismo non può essere escluso da quel continuum che dal Romanticismo nero confluisce nel Surrealismo: ché la seconda parte della mostra, incentrata sul periodo 1860-1900, proprio su quella temperie artistica pone lo spot. Il poster del film di Russell, riferito ad una scena ben precisa, riprende un dipinto di Heinrich Füssli, che compare anche nel trailer del Musée d’Orsay: L’incubo (1781), del Detroit Institute of Art. Curioso valutare il riuso critico che il cinema ha fatto di quest’olio su tela, visto che anche in Barry Lindon di Stanley Kubrick (1975) e ne La Marchesa Von O… (1976) di Eric Rohmer l’opera viene citata.

L’incubo (1781) di Fussli in Gothic (1986) di Russell

Se si considera la natura “onirica” del racconto cinematografico di Russell, si coglie come il contesto narrativo in cui il regista cala l’opera del pittore svizzero getti luce sulla voluta “zona d’ombra” del dipinto, per il quale Füssli intese collegarsi proprio alla leggenda del nightmare, “incubo”, ma alla lettera “demone della notte”, incarnato nella rachitica creatura gibbuta, che arriva cavalcando una giumenta per accovacciarsi sul ventre della giovane donna e turbarne il sonno. Alla luce innaturale del dipinto corrisponde la manipolazione fotografica, con saettanti fulgori nell’oscurità, del film Gothic; all’incubo del personaggio di Mary Shelley nel film, ed al parto di Frankenstein della sua mente, si combina il nightmare di Füssli: un gargoyle che s’immagina non meno fuori luogo con la scorza lapidea, sotto la mano callosa e rampicante del Quasimodo di Hugo in Notre-Dame de Paris, o come escrescenza dell’inconscio nella versione dipinta di una setta di freudiani con la tavolozza.

Illustrazione di Quasimodo per Notre-Dame de Paris, da Alfred Barbou

Il trailer del Musèe d’Orsay, dunque, non è solo una strategia comunicativa ruffiana, ma è un varco, nemmeno troppo inconsapevole, sul riconoscimento di un’intrinseca potenzialità cinematografica di certe immagini del romanticismo, tanto più considerando l’ampio risalto che poi la mostra concede in effetti al medium del cinema: un modo nuovo per pensare smaliziatamente un Friedrich in campo lungo (Monaco in riva al mare, 1808) o medio (Viandante sul mare della nebbia, 1818), o Il sonno della ragione genera mostri di Goya (1797-98) come un perpetuo effetto di dissolvenza sospeso, col fondo fuori fuoco. Uno sguardo nuovo su cose vecchie, cioè: quello che una mostra dovrebbe produrre, a costo di agitare “mostri” che non esistono, se non in territori liminari della percezione e della valutazione critica.

Caspar David Friedrich, Monaco in riva al mare, 1808
Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, 1818
Francisco Goya, Il sonno della ragione genera mostri, 1797-98

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