La declinazione milanese di una fiera dell’arte rimane un’eterna incompiuta, non quella sublime diSchubert, ma quella meneghina la cui pasta del panetùn è “impazzita” e non riesce a darsi un equilibrio identitario vanamente inseguito dal concept di Giacinto Di Pietrantonio, con l’auslio dei vari Farronato e Verzotti, all’inseguimento del modello fancazzista dell’Artissima di Bellini a Torino -modello che il rubricante notoriamente abborrisce- ed il cui lievito non riesce ad espandersi fino a raggiungere l’ormai insano obbiettivo di divenire un punto di riferimento per il mercato dell’arte, magari pure internazionale.
Siamo coscienti delle difficoltà oggettive, della crisi globale e blà blà blà… ma forse proprio per questo bisognerebbe prendere atto che, come recita l’highlander Duncan MacLeod, “ne resterà uno solo”, vale a dire poche e qualificatissime manifestazioni in grado di catalizzare l’interesse e per il resto si apre la sterminata prateria di una localistica “serie C” costituita da salamelle appese alla parete.
Del resto pure nel settore ittico esiste il fermo biologico per ricostituire il patrimonio faunistico.
Si prendessero un anno sabbatico e riflettessero sul da farsi oppure ci inchiodassero sopra, fin da adesso, una bella lapide, magari di Salvo. In fondo già qualche anno or sono, alla analoga kermesse bolognese, il sempre lucido e sarcasticamente fluxus Ben Vautier esponeva un’opera il cui titolo era “la fiera di Bologna è piena di merda”.