L’Associazione Giovanni Testori mette alla prova Casa Testori con un progetto innovativo e mai tentato in Italia. La grande casa dell’intellettuale verrà infatti divisa in quattro spazi definiti, affidati a quattro giovani studiose chiamate a trasformare la propria tesi di laurea o dottorato in una mostra.
Nasce così “4 curatrici per 4 maestri”, un format innovativo in cui l’Associazione Testori, il suo staff e il suo comitato scientifico mettono a disposizione la propria esperienza perché quattro studi destinati a rimanere in un cassetto o comunque confinati in ambiti specialistici, possano trovare la meritata visibilità pubblica.
Le quattro esposizioni, infatti, costituiscono la traduzione in mostra di altrettanti temi di grande importanza approfonditi dalle giovani curatrici nella loro tesi: dall’idea di abitare del grande architetto Aldo Rossi, alla figura del critico Alberto Martini, responsabile della rivoluzione cultural-artistica degli anni Sessanta: i Maestri del Colore, fino a due grandi fotografi: Guido Guidi che ha fotografato tutta la vita le opere di Guido Scarpa e Giacomo Pozzi-Bellini, fotografo amato dagli artisti e dagli attori della Roma degli anni Sessanta.
Le istituzioni pubbliche e i grandi spazi espositivi privati spesso non possono permettersi di dare voce e visibilità a progetti di giovani curatori, seppur caratterizzati da grande scientificità, ritenendo insostenibile l’organizzazione di esposizioni del genere, per gli standard e i budget a cui sono tenuti. Sono infatti sempre più rare le sedi pubbliche disposte a rischiare le proprie risorse in mostre nate da nuovi studi ed acquisizioni scientifiche e, comprensibilmente, quando questo avviene, l’istituzione si affida a curatori di chiara fama, escludendo giovani e talentuosi studiosi pronti ad offrire il risultato delle proprie ricerche ad un grande pubblico.
Anche quando il giovane studioso ha la possibilità di pubblicare un lungo saggio in una rivista specializzata, ciò limita notevolmente la divulgazione del proprio studio e delle proprie scoperte, indirizzandole ad un gruppo di studiosi del settore. Del resto, non avendo esperienza nel campo espositivo, in particolar modo rispetto alla fruizione delle mostre e alle aspettative del pubblico, il giovane ha bisogno di essere indirizzato perché possa capire come tradurre un interessante studio in una mostra di facile comprensione pubblica e appetibile per chi deve comunicarne i contenuti.
Casa Testori, dalla collocazione periferica e strategica insieme, al termine di un percorso formativo presenta quindi il lavoro di quattro giovani studiose, selezionate dal proprio comitato scientifico tra le più importanti università milanesi.
NGRESSO LIBERO
Apertura al pubblico: 18 ottobre 2013 – 6 gennaio 2014 Orario di apertura: giovedì/venerdì: 11.00-22.00 | sabato/domenica e festivi: 10.00-20.00 Giorni di chiusura: lunedì/martedì/mercoledì | 24-25 dicembre e 1 gennaio 2014
Luogo: Largo Angelo Testori 13 (incrocio fra via Dante e via Piave) – Novate Milanese, Milano
Info: tel. 02.36586877 – mail: info@associazionetestori.it
Web: www.associazionetestori.it – www.casatestori.it
ALDO ROSSI. L’idea di abitare
a cura di Claudia Tinazzi (Verona, 1981), Politecnico di Milano.
La mostra affronta il tema della definizione dello spazio dell’abitare in alcuni progetti dell’architetto Aldo Rossi (1931-1997), nel cui lavoro viene riconosciuta la necessità dell’architettura di ritrovare una dimensione collettiva all’interno del mondo privato della casa, una dimensione che ancora oggi, sola, può dare qualità e ricchezza agli spazi dell’intimità domestica.
I progetti di case di Aldo Rossi sembrano ricercare sempre, con misure e caratteri differenti, l’equilibrio, il limite, in qualche modo la soglia tra lo spazio pubblico e lo spazio privato, tra collettività e singolarità o ancora meglio tra le relazioni umane e l’intimità domestica del singolo. Per Rossi la casa è il luogo dove con più evidenza si stabilisce il legame fra l’architettura e la vita, l’umanità, i sentimenti, le emozioni; una vita permeata, nella sua ricchezza, di aspetti individuali e collettivi, limpidamente riflessi nelle architetture. L’architetto milanese in tutto il suo lavoro, lo dimostrano i progetti e gli scritti, è stato capace di tradurre la poesia della vita nelle forme delle architetture, soprattutto in quelle domestiche dell’abitare. Il racconto di questa ritrovata, elementare ma profonda “idea di abitare” viene esposta in mostra attraverso alcuni progetti che meglio sottolineano l’equilibrio tra la razionalità delle forme dell’architettura, la poesia e la capacità di immaginazione. Ogni stanza affronta un progetto o un tema sotteso che si è scelto di dimostrare attraverso quaderni e disegni originali, ricostruzioni ideali, modelli tridimensionali appositamente realizzati e, quando possibile, immagini d’autore del costruito. Il visitatore potrà contare sulle fotografie di Gabriele Basilico e Luigi Ghirri, nonché materiale originale proveniente dalla Fondazione Aldo Rossi e dal DAM (Deutsches Architektur Museum) di Francoforte.
Il progetto del quartiere al Gallaratese, unico edificio costruito in mostra, racconta e sintetizza nella completezza di ogni fase, da quella ideativa all’aspetto costruttivo, il senso della ricerca che si potrebbe e vorrebbe estendere a tutti i progetti di case di Rossi. Da una parte la grande strada-portico che da sola costruisce l’immagine iconica dell’edificio oltre che il suo luogo collettivo e, dall’altra, al di sopra di questa, singole case che nella loro razionale distribuzione stanno in equilibrio tra città e natura. A seguire, quasi come un controcanto, i progetti, i disegni, le riflessioni in cui maggiormente emerge l’aspetto ideale dell’abitare sono esposti nella loro capacità di mostrarsi come archetipi dell’idea di abitare, un modo felice di vivere spiazzante ma altrettanto profondo nel significato più generale: il progetto per la Casa dello studente a Chieti, le Cabine dell’Elba come unità minima dell’abitare, il Teatro domestico e la Casa Abbandonata quasi come un unico progetto raccontano questa sospensione tra realtà, razionalità e la rappresentazione della vita.
Claudia Tinazzi (Verona, 1981), Scuola di Architettura Civile, Politecnico di Milano.
Mostra tratta dalla tesi di dottorato in Composizione Architettonica: Aldo Rossi, realtà e immaginazione. La casa, espressione di civiltà – IUAV, Venezia, 2011
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ALBERTO MARTINI. Un rivoluzionario a fascicoli
a cura di Federica Nurchis (Bergamo, 1984), Università degli Studi di Milano. Per quanto gli estremi anagrafici siano tanto ravvicinati (1931-1965), non è facile condensare l’esperienza dello storico dell’arte Alberto Martini: editoria periodica, mostre, radio e televisione sono solo alcuni dei mezzi utilizzati per esprimere i propri interessi storico artistici che, spaziando dall’antichità al Novecento, seppe trasmettere in un’emblematica unità tra cura scientifica e divulgazione artistica.
Nato in provincia di Mantova, ma presto trasferitosi a Ravenna, Martini inizia il proprio percorso critico come allievo di Roberto Longhi, con cui si laurea nel 1954, grazie a una tesi su un pittore complesso ed eccentrico come il fiorentino Bartolomeo della Gatta (1448-1502). Trasferitosi a Milano nel 1958 in cerca di maggiori opportunità lavorative, approda nel capoluogo lombardo in un momento di straordinaria apertura culturale e di boom economico, in cui poter procedere a passo sostenuto, con un’operosità frenetica e qualificata. È lui, infatti, la mente che, alla Fratelli Fabbri Editori, sta dietro alla straordinaria avventura de I Maestri del Colore, i celebri fascicoli settimanali che invasero a milioni le case degli italiani negli anni Sessanta. Della fitta costellazione di conoscenze ascrivibili al giovane storico dell’arte, l’esposizione dà conto grazie a una sorta di mappa scandita a mo’ di quadreria, nella quale si affastellano carteggi e fotografie provenienti dall’archivio Martini, filmati, articoli di giornale, opere già di proprietà dello studioso e una selezione di disegni, incisioni, sculture e dipinti donatigli dagli amici artisti (Ottone Rosai, Mino Maccari, Renato Guttuso, Carlo Carrà, Gianfranco Ferroni, Emilio Tadini, Luciano Minguzzi…).
Uno spazio a sé, guadagna invece uno straordinario dipinto di Mattia Moreni, proveniente dalla collezione di Roberto Pagnani, posto a rappresentare gli artisti conosciuti a Ravenna negli anni della giovinezza e il rapporto con due importanti collezionisti della cittadina come appunto Pagnani e Guido Rosetti, della cui raccolta sarà presente una tra le diverse opere di Rosai acquistate grazie al giovane critico. Quale episodio determinante della variegata strada di divulgazione artistica intrapresa da Martini, in mostra sarà possibile vedere un raro e prezioso documentario realizzato dal critico nel 1959 per la RAI, dedicato a Medardo Rosso, girato all’interno del Museo di Barzio, affiancato da un cospicuo numero di grandi stampe fotografiche utilizzate per le riprese, dal copione dattiloscritto, nonché da un saggio inedito di Martini, intitolato: Medardo Rosso, tra scapigliatura e impressionismo. La particolare attenzione critica riservata allo scultore verrà infine documentata dall’esposizione di un dipinto, una Natura morta, che Martini attribuì allo stesso Rosso, aprendo il caso critico di un Medardo pittore a olio. Il cuore della mostra è riservato al “fatale” incontro tra Martini e Dino Fabbri (1922-2001), che fece della storia dell’arte un fenomeno di “massa”, non più riservata ad un’elite colta ma distribuita in edicola, senza rinunciare a un alto livello scientifico e uno straordinario apparato fotografico a colori, realizzato ad hoc anche grazie a diversi viaggi compiuti dallo stesso Martini per musei e collezioni in Europa, America e Asia. In chiusura, lettere e saggi inediti, disegni originali, nonché splendide fotografie, danno conto dell’amicizia che Alberto Martini ebbe con Giorgio Morandi e Alberto Giacometti.
Federica Nurchis (Bergamo, 1984), Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Milano.
Mostra tratta dalla tesi di dottorato in Storia del Patrimonio Archeologico e Artistico: Alberto Martini (1931-1965): da Longhi ai Maestri del Colore, Università degli Studi, Torino, 2012
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GUIDO GUIDI. Il mio Carlo Scarpa
a cura di Giulia Lambertini (Reggio Emilia, 1983), Università Cattolica di Milano.
«Cercavo di fare le fotografie con cura, avendo in mente l’architettura: volevo essere preciso, esatto, per portarmi a casa quello che avevo visto».
In tanti si sono avvicinati all’opera dell’architetto Carlo Scarpa (1906-1978) utilizzando la fotografia. Tra questi Guido Guidi (1941) è colui che più di tutti ha saputo raccontare, attraverso il suo sguardo, la complessa opera dell’architetto veneziano. Dall’inizio degli anni Sessanta, infatti, in un percorso conoscitivo che ad oggi non è ancora terminato, Guidi avvicina con la sua macchina fotografica l’opera architettonica del suo primo e più importante maestro di Venezia.
Lo scopo che si prefigge la mostra è di raccontare questa storia con gli scatti realizzati in quasi 50 anni d’attività, per ripercorrere i passi del fotografo all’interno delle architetture di Carlo Scarpa e cercare di comprendere i numerosi punti di contatto tra i due artisti, l’affinità che si è creata tra due importati protagonisti del Novecento che si sono parlati una sola volta durante la loro vita.
Il percorso si apre con le fotografie in bianco e nero realizzate nel 1964 con una piccola macchina 6×6: fotografie che hanno il sapore degli appunti presi e raccolti quando, ancora giovane studente, Guidi cercava di assimilare gli insegnamenti del suo maestro, Carlo Scarpa, facendo attenzione ai dettagli, guardando “come sono fatti i muri, la carpenteria, le assi di legno, i chiodi…” delle sue opere veneziane, come l’Aula Manlio Capitolo del Tribunale di Venezia, il Negozio Olivetti di Piazza San Marco e la Fondazione Querini Stampalia. Seguono gli scatti realizzati, a partire dal 1996, per l’esposizione canadese Carlo Scarpa Architect: intervening with History (1999) in cui Guidi ci accompagna alla scoperta dei tre importanti musei allestiti dall’architetto: la Gipsoteca Canoviana di Possagno, il palermitano Palazzo Abatellis, che conserva la celebre Annunciata di Antonello da Messina, e il Museo di Castelvecchio di Verona: uno degli allestimenti museali più ammirati e copiati del mondo. Sarà l’occasione per vedere a confronto le foto originali e ricche di appunti autografi di Guidi, conservate al CISA (Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio) di Vicenza con alcuni disegni originali di Carlo Scarpa, conservati al Museo di Castelvecchio di Verona, per cogliere come l’indagine di Guidi insegua la struttura architettonica alla ricerca della sua genesi creativa. Infine, la mostra dà spazio all’articolato lavoro realizzato presso il Complesso Monumentale Brion di San Vito di Altivole (TV), opera-testamento di Carlo Scarpa nella quale si condensano e prendono forma tutti i principi cotruttivi espressi dall’architetto nel corso della sua vita. Per Guido Guidi è l’opera della vita, il luogo in cui continuare a tornare, a distanza d’anni, per fotografare e ritrovare il suo Carlo Scarpa.
Giulia Lambertini (Reggio Emilia, 1983), Facoltà di Lettere e Filosofia, Università Cattolica di Milano.
Mostra tratta dalla tesi di laurea in Storia della Critica d’Arte: Mezzogiorno circa. Guido Guidi: fotografia e architettura, Università Cattolica, Milano, 2010/2011
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GIACOMO POZZI-BELLINI. Un fotografo tra arte e vita
a cura di Carlotta Crosera (Vigevano, 1980), Università degli Studi di Milano.
Quella di Giacomo Pozzi-Bellini (1907-1990) è una storia per immagini che si propone di far scoprire, o riscoprire, il lavoro di un grande fotografo e regista di documentari del Novecento. Ripercorrendo la sua attività si potrà seguirne la vicenda biografica, rimanendo sorpresi dalla quantità di incroci con vicende e figure importanti del panorama culturale italiano ed europeo. Celebrato in vita per il suo promettente talento, ma osteggiato per via del carattere polemico e burrascoso, Pozzi-Bellini è stato ingiustamente trascurato dagli studi più recenti, e di lui, dopo la sua morte, ci si è quasi dimenticati; la sua fama si lega oggi soltanto al documentario Il Pianto delle Zitelle (1939), l’unica testimonianza della sua attività come regista, che si potrà vedere in mostra nella versione originale (senza i tagli imposti al tempo dalla censura fascista) e mai distribuita in Italia. Il film gli valse il primo premio alla Mostra del Cinema di Venezia, e ancora oggi è oggetto di culto tra i cinéphiles, che, a partire da Michelangelo Antonioni, vi hanno visto un antesignano del cinema neorealista del dopoguerra. Da questa breve esperienza del cinema documentario ha origine anche la straordinaria serie di fotografie siciliane esposte in mostra, che allarga ulteriormente lo sguardo sulla poetica visiva di Pozzi-Bellini così come si forma negli anni intorno alla guerra, in cui, in nuce, c’è già tutta la sua visione, sospesa tra una restituzione cruda della realtà e una cura formale che ne trasfigura poeticamente i dettagli. Se le fotografie siciliane raccontano il passaggio dal mestiere di regista a quello di fotografo, nell’immediato dopoguerra la foto di scultura diventa il terreno privilegiato degli esperimenti di Pozzi-Bellini, a partire dalla campagna fotografica realizzata nel 1946 alla mostra della scultura pisana del Trecento, rilevante per i suoi rapporti con le sperimentazioni che si stavano mettendo a punto in quegli anni tra i fotografi dell’avanguardia italiana, oltre che come testimonianza di una delle più importanti iniziative storico-artistiche del secondo dopoguerra, anche per via delle condizioni eccezionali in cui molte delle sculture furono fotografate.
Il mondo eterogeneo delle frequentazioni di Pozzi-Bellini, che lungo tutto l’arco della sua vita passa con disinvoltura dalla Firenze della rivista “Solaria” e di Roberto Longhi ai salotti degli intellettuali a Roma, dalle scorribande nel sud della Francia con la bande a Prévèrt agli atelier degli artisti e ai set cinematografici italiani e francesi, è forse l’aspetto della sua storia di che più colpisce lo spettatore di oggi. Un mondo documentato in mostra grazie a una galleria di ritratti eseguiti lungo tutto l’arco della sua attività, che raccontano una vita di amicizie e incontri con alcuni protagonisti della storia culturale del Novecento, tra cui: Eugenio Montale, Carlo Emilio Gadda, Vittorio De Sica, Emilio Cecchi, Alberto Arbasino, Jean Genet, Jean Renoir…
Non mancherà infine una stanza dedicata al sodalizio con Giovanni Testori, la cui visione delle opere d’arte, e quella della pittura in particolare, si lega profondamente a quella di Pozzi-Bellini. Dagli articoli scritti da Testori e illustrati dalle foto di Pozzi-Bellini per “Settimo Giorno”, alla serie fotografiche ideate per l’edizione del Memoriale ai Milanesi di Carlo Borromeo curata da Testori, fino all’inedita sequenza di ritratti dello scrittore, verrà offerta al visitatore un’ulteriore lettura dello sguardo del fotografo sull’opera d’arte, e della sua partecipazione al rinnovamento della cultura visiva novecentesca.
Carlotta Crosera (Vigevano, 1980), Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Milano.
Mostra tratta dalla tesi di laurea in Storia dell’Arte Moderna: Giacomo Pozzi-Bellini (1907-1990), Università degli Studi, Milano, 2009/2010