Stride con l’opulenza decorativa e il fasto della Galleria Borghese l’essenzialità scarna di Alberto Giacometti. È voluto questo contrasto, nella mostra in corso a Roma fino al 25 maggio, curata da Anna Coliva e Christian Klemm?
Si voleva provare a far dialogare le sculture esistenzialiste dello svizzero con Gian Lorenzo Bernini, ossia con il barocco in 3D?
Non si capisce.
Mi sono limitata a guardare, visto che il tentativo di confronto è giocato su un piano prettamente visivo, e ho cercato, tutt’al più, di leggere le didascalie delle opere, scritte piccole e talvolta nascoste in alcuni pannelli dall’estetica alquanto discutibile. Semplicemente guardando, ho provato fastidio. Per la forzatura degli accostamenti, tirati per i capelli come i critici e gli storici dell’arte sanno fare magistralmente, giocando con le immagini. Per la modestia e talvolta bruttezza dei basamenti dei bronzi di Giacometti, così cheap.
Perché alcuni di essi spariscono proprio; per esempio l’uomo che cammina, qui con passo solitario davanti a una porta antica intagliata e scura che lo rende invisibile.
E poi perché imporre un sovrapprezzo di 5 euro per vedere Giacometti a chi magari era venuto solo per Benini e Canova? C’è bisogno di attirare pubblico alla Borghese che ogni giorno sfiora il numero massimo di capienza del museo?
Perché non destinare i fondi per le mostre a realtà museali meno conosciute, che soffrono fino a rischiare il collasso? Perché l’offerta culturale non si pianifica intendendola come servizio, oltre gli individualismi e ai personalismi?