Alessio Larocchi
NORMA STANDARD’S HOME
Nomos Edizioni
pp. 96, Euro 20,00
ISBN 978-88-98249-268
Norma Standard’s home riunisce in un unico progetto espositivo e auto-espositivo il ciclo di lavori di Alessio Larocchi di questi ultimi anni; l’Artista ripensa qui la propria ricerca, e affianca alle opere nuove anche alcuni progetti e opere di fotografia, pittura, disegni, piccole sculture e libri d’artista degli anni Ottanta e Novanta, così da spaesarli e, insieme, ridefinirli alla luce del punto in cui è giunta la ricerca.
Dal testo critico di Elio Franzini
“Quando si riflette sugli artisti del nostro tempo viene spesso dimenticata una premessa essenziale: non sono individui “diversi” rispetto a quelli che hanno abitato lontani passati, che pure hanno attraversato travagli tecnici e lavorii teorici, ma, semplicemente, sono ormai oggi spinti, da retaggi concettuali, e da mezzi comunicativi più raffinati, a pensare intorno alla propria opera, trasformando questo stesso pensiero in parte di essa, in un gioco di rimandi in cui la poetica diviene arte.
Alessio Larocchi è, in questo senso, un artista paradigmatico: è infatti artista che “ricerca” e, in ciò, mantiene tuttavia intatta la sua personalità fabbrile, pur sempre congiungendola a una riflessione attiva sul senso delle forme e sulle modalità del “fare”. Larocchi, sia chiaro, è artista complesso, che non può venire liquidato attraverso formule stereotipate: la sua ricerca, per certi versi ossimorica, di un dialogo tra l’oggettività non emotiva dello sguardo e la radiografia interiore, è emblematica di una volontà di affrontare in modo originale quel grande tema della pittura di ogni tempo che è la relazione tra interiore ed esteriore.
Non a caso, dunque, Larocchi si rivolge spesso all’arte monocromatica, arte che, come è noto, possiede una doppia anima, che sembra rimandare alla teologia negativa, in cui da un lato la tela appare in risalto, ma, dall’altro, le forme sono “spogliate”, con un intento che è difficile non avvicinare a una forma di paradossale misticismo.
In questo dialogo aperto che unisce “realismo” e “non oggettività”, Larocchi è consapevole che tale non oggettività ha un evidente substrato antimimetico, mirando con ciò a indicare una nuova strada costruttiva, capace di sondare il mistero dell’universo. Un mistero che il pensiero cerca di nascondere e che forme, trame, colori, anche nella loro unicità, e perfezione assoluta, tendono invece ad esaltare. Questa tensione all’assoluto viene tuttavia perseguita rigettando, sin dai non titoli delle opere, il misticismo soggettivo, e la sua patetica monotonia: Larocchi è consapevole che il “senza oggetto” non può rimanere il fine dell’arte.
I monocromi, o le pitture che sembrano sfumare il colore, sono quindi sempre l’esigenza di un’interrogazione che è, sul piano concettuale, un’esigenza dell’arte, quella di aprire al rapporto tra il segno e la realtà. Rapporto che pur vive, come il lavoro di Larocchi dimostra, sempre in contatto, spesso paradossale, con i confini dell’infinito, l’idea del vuoto, dell’immateriale, dell’indefinibile. Rigettando ogni mistica romantica dell’interiorità innalzata ad assoluto, quasi riprendendo quel che Valéry scriveva contro Pascal, rifiutando le “ragioni” del cuore, dell’intimo segreto, Larocchi vuole manifestare attraverso l’arte una forza, forse quella di un misticismo “oggettivo”, quella che anima Klee quando afferma che la pittura deve rendere percepibili occulte visioni, deve rendere visibile l’invisibile, deve essere il medium di un senso che eccede la mimesis e presenta forme estetiche che conducono al di là dell’estetico e dell’immagine, rendendo l’arte una manifestazione spirituale di una poeticità originaria, di un’espressione che è – ed è questa forse la parola chiave – simbolica.
Il simbolo è infatti il segno di una doppia natura: visibile e invisibile, divino e umano, immagine e non immagine, forma e informe. Segno di una frattura che si ricompone, ma che non si unifica in un’identità astratta, di un misticismo negativo che è tuttavia forza estetica, possibile, che si attualizza nel mondo, e in sempre nuovi mondi possibili.
I lavori di Larocchi si inseriscono in questa linea, vogliono davvero presentarsi come icone della nostra contemporaneità, grado zero del simbolo, avvio del processo stesso di simbolizzazione, che è compito dell’arte, sempre di nuovo, attestare nella sua presenza, nel suo colore, quindi nella sua più intensa e presentificante qualità morfologica. È quella forma possibile dalla quale scaturiscono le forme reali, dunque è la forma matrice: una monocromia che diviene policromia, un suono (melodico) che si trasforma in polifonia (armonia e ritmo).”
Dal testo critico di Claudio Cerritelli
“Le affermazioni programmatiche di Alessio Larocchi intorno alla funzione comunicativa delle opere scelte per questa esposizione congiungono differenti procedure linguistiche in una ricerca definita “non emozionale”. Viene subito da chiedersi se questa scelta “anaffettiva” non sia altro che una variante intenzionale di un processo ben più complesso, un movente nominalistico all’interno di una logica creativa che non ha del tutto superato i legami con la visione soggettiva, con i microcosmi di sensibilità segnati dentro un perimetro visivo di forte marca concettuale.
Del resto, Larocchi non disdegna un atteggiamento ambiguo, lo stare “in bilico tra anonimato e intimità”, punto di vista non trascurabile che sfugge al presupposto radicale del “not emotional”, condizione centrale del fare arte. La questione immediata è dunque questa: non è forse il dilemma tra visione spersonalizzata e visione intima il sintomo del fatto che Larocchi tiene sempre e comunque aperta la soglia del rapporto tra arte e soggettività?
Rispettando le intenzioni dell’artista, proviamo a non tradire la sua ansia di staccarsi dal versante delle compromissioni emozionali, valori esistenziali che l’arte contemporanea di tipo analitico ha spesso relegato a ingenuo ripiegamento del soggetto sulle attitudini espressive di tipo postromantico. Prima di prendere in esame le opere, è naturale collocare l’ipotesi anaffettiva di Larocchi all’interno di una riflessione dell’arte come cura di sé stessa, riflessione sugli elementi costitutivi, sistema di segni anonimi e impersonali, sottratti alle anomalie dell’inconscio, senza più connessioni con gli impulsi irrazionali delle metamorfosi intuitive.
Si tratta dunque di far funzionare il linguaggio secondo stereotipi e clichés che raffreddano la temperatura del visibile, metodologie impersonali di natura meccanica dove sono messi a nudo gli ingranaggi comunicativi, favorendo quei processi standardizzati che assicurano energie comunicative essenziali.
È come se l’artista anaffettivo fosse costretto alla disciplina dello svuotamento interiore, alla perdita dell’ingombrante frenesia dei gesti, alla smaterializzazione della sensorialità tattile, valori considerati come riverberi di una funzione semantica pervasa da contraddizioni soggettive. Tale rigore comunicativo porta a concepire l’opera come pura sintassi logica del linguaggio adottato, punto di vista neutro che cancella ogni significanza, assottigliamento del processo di elaborazione dei materiali, soglia di conoscenza purificata dai rumori del reale e predisposta al silenzio mentale.
La visione anaffettiva presuppone un’idea di artisticità affrancata da ogni referente, valida solo come luogo senza misura, tempo senza cronologia, spazio concepito fino al limite della sua alienazione, stato di percezione dove il giudizio sul reale è sospeso e conta soprattutto l’osservazione del flusso fenomenico delle immagini. Per questa ragione il sistema di opere cui l’artista affida il progetto di questa mostra è uno spazio metodologico dove egli mette a confronto modelli differenti di linguaggio (disegno, pittura, scultura, fotografia), strumenti permutativi di un’azione affine alle analogie del pensiero critico.
La prospettiva creativa individuata da Larocchi non è arbitraria anche se soggetta a mutazioni relazionali, infatti si avvale di molteplici codici contrastanti che tuttavia non indicano l’intrinseca natura dell’operazione. Essa è una sfida che solo il tenore visivo e l’evidenza linguistica delle opere possono sostenere, si tratta di verificare quanto i presupposti intenzionali siano effettivamente materializzati nella dimostrazione diretta delle opere.”