Adriana Polveroni
“Lo sboom. Il decennio dell’arte pazza tra bolla finanziaria e flop concettuale”
Silvana Editoriale, 2009
Se pensavate di sentire parlare – una volta tanto senza ipocrisie, ma con il distacco di chi osserva scientificamente un fenomeno – del mercato dell’arte dell’ultimo decennio, dei suoi protagonisti, delle sue perversioni e delle sue iniquità, della straordinarietà di un vero e proprio crack borsistico che per la prima volta nella storia dell’uomo moderno coinvolge sistematicamente (ovvero, alla radice del sistema) anche un intero comparto economico connesso intimamente alla cultura, sareste rimasti delusi. Eppure, il titolo dell’incontro e del libro della Polveroni è inequivocabile.
E perché mai, allora, l’autrice si prese l’affanno di scrivere di un argomento che attira davvero l’attenzione, un fenomeno reale e complesso, un’assoluta novità nel mondo dell’economia e dell’arte, se poi, durante la discussione sul proprio scritto di fronte a una platea di uditori (e possibili lettori) essa medesima ammette candidamente e più volte che:
a) il libro è stato scritto tempo addietro (?), pertanto non ricorda i dettagli dei singoli spunti paradigmatici (ma non è un digesto ragionato sulla Seconda Guerra Mondiale!), benché l’autrice altro non fece nelle ultime settimane che partecipare a interviste e a presentazioni sul volumetto;
b) è poco interessata al mercato dell’arte oggetto della sua analisi?
Chi scrive era in attesa di apprendere non tanto dettagliate e puntute teorie economiche che poco avrebbero interessato gli astanti, ma almeno un’analisi pulita e scarna di ciò che è successo, fatti alla mano, nel circuito dell’arte mondiale e, di rimbalzo, anche nel nostro Paese, più tetragono ad assumere comportamenti estremi (anche perché a corto di risorse dedicate) ma pur sempre per la prima volta alle prese con un evento che ha fatto ridisegnare, non da molto, ma nella sostanza, la mappatura delle gallerie, ripensare le attese di artisti e galleristi e sparigliare la comunità dei nuovi collezionisti.
Avrei voluto ascoltare di come e perché si moltiplicò senza motivo apparente l’interesse del vasto pubblico intorno al “focolare” dell’arte contemporanea, sentita come il nuovo dio da adorare per far parte dell’élite (evidentemente non più così elitaria…), della quale auscultare il polso perché da Andy Warhol in poi davvero il sentimento comune della contemporaneità passa attraverso l’arte (una conquista reale e, secondo me, un vantaggio potente, una chiave di lettura privilegiata e diffusa acquisita permanentemente dalla società occidentale della seconda metà del XX secolo).
Avrei voluto ragionare intorno a come si evolvono ora la fortuna presto costruita dai protagonisti (primi fra tutti i collezionisti) e le distorsioni e le aberrazioni portate dall’efficienza affannata e compulsiva di una variegatissima e interessante popolazione di nuovi addetti ai lavori, fra cui spiccano figure allocate non più centralmente in seno a storia e circolazione dell’arte (artista, critico, mercante) ma “aggiunte” a supporto organizzativo della macchina spettacolare (curatori, editori, promotori finanziari delle unità di comparto che le banche dedicarono con diversi impulso e interesse alla materia).
Avrei voluto capire perché il denaro entra in modo vincolante, nel senso dell’effetto sul significato dell’opera d’arte, sia nella realizzazione dell’opera stessa sia nelle scelte concettuali e poetiche dell’artista e come la visione dell’arte e la sua percezione ne è risultata deformata (e non si tornerà più indietro: è meglio che, questo boccone, lo inghiottiamo).
Avrei voluto verificare il caso delle poche aree artistiche ancora quasi vergini rispetto a questo sconcertante arrembaggio globale, come Centro e Sud America o l’Africa o il “continente” indiano, in quale maniera o misura la produzione artistica di quelle terre, che non può contare sull’appoggio economico delle potentissime lobbies occidentali, ma nelle ristrettezze produce arte e, non raramente, quale arte! Avrei voluto capire se davvero, come pare, l’elemento etico è fondamentale per riappropriarsi del significato del fare arte anche da noi, ma in che misura è ora necessario isolarlo rispetto agli effetti di una storia economica da cui non si può del tutto prendere le distanze.
Avrei voluto analizzare le dinamiche finanziarie e di mercato puro alle quali l’economia dell’arte dell’ultimo decennio (per antonomasia la più volatile e altalenante in assoluto, quella che nessun esperto avrebbe mai voluto sino a poco tempo fa come oggetto di indagine nei propri grafici previsionali) dovette giocoforza soccombere alla violenza speculativa e con quali mezzi – tutto sommato – alla fine uscirà con le proprie gambe e non con l’aiuto della finanza dall’ empasse in cui la stupidità dell’uomo occidentale ha gettato anche questo aspetto fondante della propria esistenza, uno fra i pochi motivi per cui si sta su questo pianeta.
Avrei voluto sentire a quali bisogni rispondevano le emerite nefandezze spacciate da scaltri “piazzisti” come opere d’arte aldilà e di qua dell’equatore a costi astronomici, le stesse nefandezze che coagularono poderose correnti di liquidità in favore di arte discutibile nei nuovissimi mercati (penso, ma non solo, alla Cina), flussi di denaro che fuorviarono dalla vera e seria ricerca che pure quelle stesse comunità artistiche riuscirono, malgrado tutto, a maturare. Avrei voluto conoscere le reazioni, a crollo di mercato avvenuto, delle centinaia di presunti collezionisti i quali, così come avvenne nelle City di mezzo mondo, tentarono troppo tardi di disfarsi delle medesime porcherie che, peraltro, mai compresero né, tantomeno, giudicarono, perché questo era un aspetto marginale del rito dell’acquisto confortato dai suoi sacerdoti.
Avrei voluto infine sapere che ne è ora dei musei che, soprattutto negli Stati Uniti, vivono di sovvenzioni drasticamente decurtate e di come l’attività e la politica culturale di quest’ultimo anno sia stata modificata, in tutto il mondo, dalla crisi economica.
Insomma, avrei voluto parlare di arte e di denaro agli albori del XXI secolo. Né tanto di più né tanto di meno.
Di tutto ciò, malgrado gl’improbi quanto vani sforzi di Angela Vettese, l’unica a tentare di “rimanere sul pezzo” (perché fu la Vettese, malgrado il programma non lo prevedesse, a moderare la serata), l’unica a comprendere davvero il tema della serata, nulla si è sentito.
Da voci più o meno modulate, abbiamo appreso le opinioni dei relatori, specchio dell’attuale nostrana comunità dell’arte, intorno alla loro personalissima e intima reazione di fronte a un fenomeno, marchiato in astratto come perverso e cattivo, del quale nessuno (nessuno escluso) sentiva di aver fatto parte, ma ammetteva di esserne stato il titubante e turbato spettatore.
E per quanto i nostri ospiti avessero fondanti e articolate opinioni su come debba essere concepito un festival, una biennale, un museo d’arte contemporanea, un’opera d’arte pubblica o il lavoro dell’artista (che, se non è almeno un po’ “relazionale”, oggi non vende, perdiana!), la discussione intorno all’argomento promesso dal libro non prese l’avvio.
Noi tutti convenuti, appollaiati su quell’infernale trespolo multipiazza che è la cavea del teatro della Fondazione Pomodoro, giunti con il fiato strozzato alle 18.30, orario del peggior traffico dell’inutilmente frenetica giornata milanese, eravamo appesi alle labbra degli esperti.
Ma, a bocca asciutta, rimanemmo al “signora mia, ma che mi dice!”, al cicaleccio compostamente indignato e un po’ qualunquista in cui i buoni sentimenti e l’ottimismo nei confronti dell’inestinguibile luce del faro dell’arte di fronte alle tenebre dei tempi che verranno hanno controfirmato il vicendevole patto d’alleanza fra i sostenitori dell’estetica versus i cattivi speculatori, fra cui, già che ci siamo, rientrano anche le vituperatissime archistars dei musei contemporanei che pretendono rubare la scena alle opere.
Ma, almeno, da qualche parte, i musei – unici luoghi deputati al ragionamento corale e critico sull’arte – sono stati costruiti: e chi non li ha, piange amare lacrime. Per una volta, avrei voluto sentire un’indicazione di verità, senza fronzoli né meccanicismi, intorno ad un argomento centrale per la nostra epoca. Ho dovuto viceversa prendere nota delle ragioni per cui chi è oggi nel mondo dell’arte non si è sentito mai parte di un eccesso che – a vario titolo e con diversi risultati – contribuì invece a consolidare.
Di questa moneta di scambio, bando ad ogni ritrosia, si deve, però, e con urgenza discutere per non ripetere l’errore commesso. Se errore davvero c’è stato. Ma sicuramente non può più essere un tabù.
____________I commenti di ArsLife_____________
ARTISTI, ORA TOCCA A VOI !
Milano – 19 novembre 2009, ore 18.30
Adriana Polveroni, LO SBOOM – Il decennio dell’arte pazza tra bolla finanziaria e flop concettuale
Silvana Editoriale, edito il 15.10.2009, pagine 100, prezzo € 14,00
Presentazione del libro e conversazione con l’autrice, Angela Vettese (critica), Alberto Garutti (artista), Pier Luigi Sacco (economista e prorettore IUAV)