Bartolomeo Pietromarchi nasce il 5 aprile 1968. Dal 2011 è direttore del Museo Macro di Roma. Il suo curriculum vanta incarichi di notevole qualità: direttore della Fondazione Adriano Olivetti, responsabile della direzione artistica dell’Hangar Bicocca di Milano, curatore del premio Italia arte contemporanea per il museo Maxxi, ed ora prossimo responsabile del padiglione nazionale alla Biennale d’arte di Venezia del 2013. Ruolo prestigioso e ingrato al contempo, visto l’insuccesso dell’edizione precedente, firmata da Vittorio Sgarbi. A lui il compito di riaffermare – a livello internazionale – la qualità dell’arte italiana. Dimostrare come questa sia altro rispetto a semplici, quanto “meschine”, logiche clientelari. Di strada, Pietromarchi, ne ha fatta tanta, nonostante la sua giovane età. Figlio di diplomatici si laurea in storia dell’arte contemporanea e a questa “sacrifica” la sua vita, considerando la cultura volano di benessere, non solo economico, ma soprattutto umano e relazionale. Punto cardine attorno alla quale la società è destinata a ruotare per affermarsi davvero come comunità civile.
Pietromarchi, lei appartiene alla cosiddetta generazione T-Q, generazione composta da trentenni e quarantenni già affermati – e in parte invidiati – a livello internazionale. Il suo curriculum si sposa con questa categoria. Mi racconta, allora, qual è stata la sua “chiave di volta”?
«Quello che sono oggi lo devo anche alla mia famiglia, al modo in cui sono cresciuto, al mondo in cui sono nato. I miei genitori sono diplomatici e grazie a loro ho potuto girare il mondo e conoscere moltissime realtà, oltre che svariate persone, legate anche al mondo dell’arte. E così decisi di proseguire in questo, avvicinarmi alla cultura e dedicare il mio impegno alla sua diffusione. Il mio primo incarico fu quello di curatore del programma di arte e architettura della fondazione Adriano Olivetti, prima ancora di diventarne direttore. Ruolo, quest’ultimo che ho ricoperto per alcuni anni prima di esser chiamato alla Fondazione Hangar Bicocca. In seguito sono arrivato a Roma, prima per il premio Italia arte contemporanea del museo Maxxi, in qualità di curatore, ed ora come direttore del museo Macro».
Tolse la poltrona a Luca Massimo Barbero… non preferiva fare altro?
«La mia nomina non fu una sostituzione di Barbero, ci tengo sempre a chiarirlo. Non c’era nessuna avversità nei confronti del mio predecessore, a cui – fra l’altro – va il merito di aver guidato l’apertura dei nuovi spazi del museo progettati da Odile Decq. I problemi erano altri. Sono stato contento di raccogliere la sfida, portare avanti in parte anche un progetto che mi trovava d’accordo con la linea di Barbero».
E i risultati ci sono stati, visto che il Macro è una delle poche realtà contemporanee, a livello nazionale, che riesce, ogni anno, a chiudere il bilancio in positivo o, quanto meno, in pareggio. Quali ingredienti usa nella sua gestione?
«Adottiamo uno stile di lavoro molto condiviso e partecipato. Quando raccolsi la sfida di guidare il museo, la raccolsi sapendo di avere molte persone disponibili, capaci e con idee innovative. Un’ottima squadra, insomma. In aggiunta a questo ho trovato un tessuto cittadino molto disponibile e fortemente intenzionato a far crescere il Macro. Più in generale, il mio modus operandi è la conseguenza del mio pensiero, di come penso all’arte e alla cultura. Ritengo che questa debba essere legata sì a una crescita produttiva, a uno sviluppo democratico ed economico del paese. Ma credo anche nel suo enorme potere di fare “collante”, di educare una società. Ho una visione interdisciplinare della cultura. Questa non serve e non cresce solo in un determinato modo».
La città di Roma, a breve, sarà chiamata a eleggere una nuova amministrazione. Crede che l’esito possa cambiare l’assetto direttivo di alcuni centri, penso anche al Macro, proprio in qualità di museo a compartecipazione comunale?
«Questo non si può mai sapere. Quello che sta accadendo nel paese denota una grande incertezza e una trasformazione. Mentre qualche anno fa si poteva un po’ prevedere il futuro, oggi non rischierei di parlare a vanvera. Per il resto penso che comunque ormai c’è una coscienza molto forte nel pubblico romano, quello più specializzato sull’arte contemporanea, che non è un pubblico anonimo ma una vera massa critica. Credo che questa massa critica resti un elemento con cui si dovranno fare i conti…».
Il ministro dei Beni e delle attività culturali, Lorenzo Ornaghi, l’ha nominata curatore del padiglione Italia alla prossima Biennale di Venezia. Lei ha parlato di un progetto che mette al centro un’arte più giovane che storica con una visione generale più che particolare. Mi spiega quest’affermazione?
«L’idea è quella di realizzare una sorta di riflessione, anche tematica, su delle costanti dell’arte contemporanea che si ritrovano in generazioni di artisti diversi. Questo non esclude che ci siano nomi consolidati, ma anche delle novità. Sebbene, tendo a escludere i giovanissimi».
E perché?
«Non credo che il padiglione sia un luogo per presentare artisti giovanissimi. Perché per un giovane artista, ancora alle prime uscite, trovarsi a rappresentare l’Italia alla Biennale di Venezia può avere degli effetti drammatici. È un carico troppo alto di responsabilità che il più delle volte diventa un danno per la sua carriera piuttosto che un vantaggio».
Ha parlato con Beatrice Merz a fronte delle nomine? Qualche maligno dice che lei le ha fatto le scarpe…
«Certo che ho parlato con Beatrice, ci siamo visti subito dopo la nomina ed è tutto molto tranquillo. L’Amaci, l’associazione che lei presiede, mi ha dato tutto il sostegno e l’appoggio necessario. Sono solo pettegolezzi. Tutto si è svolto nel modo più limpido possibile e come ho vinto io, avrebbe potuto vincere tranquillamente anche un altro candidato».
Il ministero cosa ha fatto? Ha vagliato programmi e curriculum per scegliere il curatore del padiglione?
«Esatto. Ha analizzato i progetti e i curriculum dei candidati».
Alla prossima Biennale ci sarà anche il padiglione del Vaticano, come valuta questa novità?
«Sarà sicuramente interessante, alla stregua degli altri 89 padiglioni nazionali. Ci sono delle cose che non conosciamo a fondo nel rapporto tra arte contemporanea e Vaticano. Aspetti che potrebbero esser divulgati su scala internazionale proprio in quest’occasione. Senza dubbio mi aspetto una mostra che recuperi valori della tradizione, legati anche a un’applicazione lontana dalla contemporaneità delle arti, come l’artigianato, ma che possa comunque dare dei buoni risultati».
Direttore del Macro e curatore del padiglione Italia. Ruoli compatibili?
«Più che compatibili, direi essenziali, è un po’ un’altra tappa di un percorso che viene da lontano di cui il Macro fa parte. Una sorta di grande motore».
Lei ha lavorato al Maxxi, come valuta la nomina di Giovanna Melandri a presidente della fondazione?
«Credo che ci sia stata molta confusione che, a sua volta, ha generato quel polverone di chiacchiere che si alza spesso in Italia. Penso, comunque, per il percorso avuto dalla Malendari, che il ruolo di presidente sia consono alle sue capacità. Del resto è un compito più amministrativo che curatoriale. La cosa importante è che possa far affidamento su persone capaci e valide che sappiano affiancarla nella direzione artistica. Il Maxxi deve avere una prospettiva internazionale e la Melandri deve trovare strumenti ancor più validi per far questo».
Bè ha già annunciato di rendere il museo la Tate d’Italia… progetto ambizioso non trova?
«È un obiettivo non semplice, anche se la Tate e l’Inghilterra sono panorami molto diversi da quello italiano. Non credo si possano raggiungere quei livelli, ma credo che si possa, con tante formule, riuscire a inserire il Maxxi, veramente, nel sistema dell’arte contemporanea internazionale».
Uscire dalla crisi economica con l’arte contemporanea. È ridicolo pensarlo?
«La nostra ricchezza – è banale dirlo ma è la realtà – è la cultura. L’Italia vive e si basa su questa ed è difficile, nonché insopportabile, non capire questa cosa, non solo in termini economici ma anche culturali, d’educazione. Credere nel suo potere porterebbe a dei risultati incredibili».
Di personaggi che si occupano di cultura ce ne sono, le istituzioni, invece, zoppicano un po’, mancano d’attenzione…
«Purtroppo questo atteggiamento è seguente anche alle contingenze reali dell’economia. Però quando sento che non si possono fare le cose per mancanza di fondi provo una certa disapprovazione. È una giustificazione sterile perché quando si riescono a gestire le forze in campo, a fare squadra, la difficoltà economica diventa un po’ un falso problema. Non bisogna fermarsi e dire che non ci sono i soldi per recidere la cultura. Poi certamente le difficoltà ci sono e sono sotto l’occhio di tutti, ma allora quello che manca, più che i fondi, sono forse le idee di chi gestisce la cosa pubblica».
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