Riflessione al vetriolo
Se è l’incompiuta di Marino Auriti e del suo demenziale progetto di raccogliere tutto lo scibile umano, dalla scimmia al razzo, in un Palazzo Enciclopedico a dare il titolo alla mostra, è il Libro Rosso di Carl Gustav Jung che apre l’esposizione al Padiglione Centrale ai Giardini a costituire il fil, per l’appunto, rouge di tutto il progetto espositivo. Infatti più che un organizzata ripartizione dell’umano sapere siamo di fronte ad una entomologica e un poco pedante classificazione di ossessioni al limite del caso clinico, vere esperienze border-line, che vengono «spillate» sulle pareti dei padiglioni a costituire l’ossatura della mostra. Ossessioni che originano artefatti, spesso pregevoli, che non riescono, né lo potrebbero, a costituire un organico percorso dell’umano sapere. La scelta di Massimiliano Gioni di rompere con la consuetudine di raccogliere sotto un pretestuoso titolo i soliti noti protagonisti dell’art system e di mescolare artisti professionisti e dilettanti, insider e outsider – portando alle estreme conseguenze l’assunto avanguardistico che l’arte é vita e la vita é arte, quindi tutti artisti nessuno artista – da luogo ad una disorganica campionatura di esperienze che non si traduce in un linguaggio organizzato, ma in una disarticolata cacofonica partitura. Sì, perché il tentativo di ritrovare vita nel disagio e nell’ossessione come fonte di ispirazione, paradossalmente fa strame di qualsiasi sublimazione artistica per rifugiarsi in una dissolvente orizzontalità postmoderna.
Nel corso della storia spesso l’Arte ci ha raccontato attraverso la rappresentazione il disagio collettivo. Con il culto delle immagini nel mondo classico si ricercava tanto l’armonia, la consolazione alla perduta unità, quanto la raffigurazione della complessa relazione con il profondo, il naturale. Mai le ossessioni individuali sono servite a fare cultura. La risposta junghiana in realtà cerca nella sincronicità atemporale dell’inconscio collettivo un raccordo con il mito ed il sacro che il nostro mondo ha perduto, non una laica e parcellizzata consolazione creativa. I successi delle varie esperienze teosofiche ed esoteriche, al limite dell’occultismo, del secolo scorso testimoniate nella mostra fanno il paio con l’algida e paranoide numerologica geometria dell’opera che conclude l’esposizione, a suggellare l’impressione di un profondo smarrimento. Detto questo, la mostra é suggestiva, ben ordinata, corredata di esaustive schede, ricca di sorprese e di opere spesso davvero eccezionali che escono dal curioso, un bella «camera delle meraviglie» insomma con le sue naturalia e arificialia esotiche. Diventa un poco più banale e prevedibile quando all’Arsenale nella parte conclusiva, cerca e indaga relazioni e corrispondenze «inedite» nel nostro mondo, dove comunicazione e inflazione delle immagini la fanno da padroni, fino ad indagare le relazioni tra originale e copia e tra tecnologia e manualità.
A conclusione di tutto questo «viaggio», la citazione nel testo in catalogo di Massimiliano Gioni della famosa frase del guru Joseph Beuys: «ogni uomo possiede il Palazzo più prezioso del mondo nella sua testa». Ecco, appunto,ognuno si faccia gli sciamani suoi.
in punta di pennino
il Vostro LdR
3 Commenti
ricca di sorprese e di opere spesso davvero eccezionali che escono dal curioso, un bella «camera delle meraviglie» Che bello sarebbe per noi mortali conoscerle in un prossimo scritto con tanto di fotografie.
Questo la farebbe diventare, oltre che leggiadro e spiritoso come è già, un divulgatore…a meno che la cosa non La terrorizzi,
Massimo
Come artista il titolo della mostra mi fa venire l’orticaria, e ha un senso accettabile se e solo se legato all’ossessione di Marino Auriti. L’articolo è bello, questa Biennale l’ho vista ancotra in parte: molto piaciuto il padiglione statunitense, laddove l’ossessiva collezione di oggetti riciclati di Sara Sze ha dato luogo a grandi istallazioni molto sceniche sia globalmente che nei mille dettagliati teatrini poetici. Ecco un’ossessione non sterile…ciao!
E’ certamente difficile organizzare una Biennale e soprattutto giudicarla senza averla vista di persona, perciò mi astengo da ogni giudizio e faccio riferimento agli articoli che propone ArtsLife, questo è impegnativo e spiega molto bene del rischio, per tutti, di creare un evento con effetto “lavatrice”; quando ci sono tante immagini anche se le organizzi benissimo difficile non uscire storditi dalla mostra. fare sintesi di un palazzo Enciclopedico è arduo. Forse alla Biennale come in ogni mostra ognuno trova quel che ha già dentro di sè.La conclusione di Beuys, è la versione laica della constatazione fatta da San Paolo duemila anni fa : ogni persona possiede la chiesa più preziosa nella sua anima. E qui si potrebbe aprire un discorso sul flop del Padiglione Vaticano. Mi affido alla professionalità della Redazione. Stefano Armellin
Pompei, giovedì 6 giugno 2013