Alessandro Grassani ha vinto l’undicesima edizione del Premio Amilcare G.Ponchielli promosso dal G.R.I.N. (Gruppo Redattori Iconografici Nazionale) con un progetto fotografico dal titolo Environmental migrants: the last illusion, una documentazione intensa e toccante sulle popolazioni di molti Paesi del mondo costretti ad lasciare la campagna per emigrare in città a causa dei cambiamenti climatici.
L’autore, nato a Pavia nel 1977, racconta in questa intervista ad ArtsLife il suo drammatico e allarmante reportage che ha mostrato le conseguenze del freddo estremo in Mongolia, l’innalzamento del mare in Bangladesh, la siccità e le guerre tribali per il controllo delle risorse in Kenya e ora si appresta a partire per le Filippine per continuare la sua narrazione fotografia di popoli ancorati al filo della loro ultima illusione.
Come è iniziato questo tuo progetto fotografico che registra un esodo che tocca una vastità di paesi del mondo?
Questo progetto è nato quando mi trovavo in Mongolia e stavo indagando le conseguenze di un inverno particolarmente rigido (lì le temperature possono raggiungere i meno 50°) che aveva sterminato 8milioni di capi di bestiame e costretto ad abbandonare i pascoli e la vita nomade circa 20.000 pastori, che con le loro tende (l’unico bene rimasto), erano emigrati a Ulan Bator – capitale della Mongolia – nel tentativo di rifarsi una vita. Ho cercato e raccontato la storia di questi migranti ambientali e mi sono chiesto se questo fenomeno migratorio verso le città, indotto dai cambiamenti climatici, si verificasse anche in altri Paesi. Mentre ancora mi trovavo in Mongolia mi sono messo in contatto con IOM (International Organization for Migration) – che ancora oggi collabora alla realizzazione del mio progetto – e insieme abbiamo capito che il secondo capitolo di questo neonato progetto sulle migrazioni climatiche doveva essere il Bangladesh…e così ho immediatamente preso un aereo per Dhaka.
Qual è il contatto che instauri con le popolazioni che incontri durante lo sviluppo del tuo lavoro? Come ti accolgono? Come percepiscono questa tragedia ?
Ogni Paese è diverso e richiede degli approcci diversi nell’interagire con le popolazioni locali, e questo può essere più o meno complicato… nella realizzazione di questo progetto la parte più difficile è stata in Kenya, al confine con Uganda ed Etiopia dove stavo documentando gli scontri armati tra diverse tribù per il controllo delle risorse idriche locali ed ero “ospite” nei villaggi di queste tribù che notoriamente non amano molto farsi fotografare… io avevo comunque il “permesso”, insieme al mio fixer e al mio driver, di montare una tenda e dormire nelle vicinanze dell’abitazione del capo villaggio, che ci aveva assicurato protezione e il permesso di poter documentare come la scarsità delle risorse e i continui attacchi delle tribù confinanti stessero mettendo a dura prova la sopravvivenza di queste persone… ma fare fotografie era ancora troppo complicato fino a quando un giorno sono stato pregato di andare a recuperare (ero l’unico ad avere un veicolo a motore probabilmente nell’arco di decine e decine di Km) un pastore ferito da un colpo di fucile. Era una situazione piuttosto pericolosa, perché il pastore si trovava in territorio etiope e io non avevo il permesso per varcare il confine e poi, solitamente, gli aggressori aspettano ben nascosti i soccorritori per poter sparare anche a loro. Non potevo lasciare quella persona a morire sotto il sole e mi sono preso il rischio: siamo partiti e in un attimo avevo il pick-up pieno di pastori armati fino ai denti che non riuscivo a far scendere dal veicolo… sono partito comunque e abbiamo recuperato il giovane pastore che era ferito a un ginocchio e, fortunatamente senza altre complicazioni, siamo tornati nel villaggio… io, ovviamente, ero diventato l’eroe del momento e fare fotografie da quel giorno era diventato molto più semplice. In questi luoghi non ci sono ospedali e al povero ragazzo, ho saputo più tardi, amputarono la gamba ed è per questo che decisi di raccontare la ferocia degli scontri tribali, esasperati dalla permanente siccità, attraverso i ritratti di pastori feriti che avevano subito delle amputazioni.
Nella motivazione del Premio Amilcare Ponchielli 2014 il Presidente della giuria di quest’anno Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera ha scritto: “Il progetto vincitore di questa edizione potrebbe avere come titolo: morire di sete. Raramente il dolore, l’attesa, l’illusione sono stati descritti con immagini così profonde significative. Nel Corno d’Africa la desertificazione uccide ogni speranza, anche di coloro che ne avevano pochissima e aggrappata alla modesta attività agricola o di allevamento. La lotta per il controllo delle modeste risorse idriche si trasforma in un conflitto quotidiano per la sopravvivenza. Un conflitto esasperato dall’odio tribale. E l’urbanizzazione selvaggia ha il volto disumano e maleodorante degli slums. I migranti ambientali hanno perso tutto e il loro sguardo è nel vuoto, ma conservano un’intima e indistruttibile dignità. Mentre il nostro, di sguardo, che ha la mobilità nevrotica delle cattive coscienze, scivola via. Grassani ha anche il merito di costringerci a vedere e riflettere. Un grande reportage”. Puoi commentare questa motivazione con quello che hanno visto i tuoi occhi ?
In effetti credo che De Bortoli abbia colto pienamente il senso di quello che in questi anni ho tentato di raccontare con il mio lavoro sui migranti ambientali. Con i miei occhi ho visto il volto disumano degli slums e i miei polmoni sono ancora impregnati del puzzo insopportabile che si respira in questi luoghi; volevo raccontare il dolore, l’attesa, l’illusione ma soprattutto la dignità di queste persone che soffrono in silenzio. Sono orgoglioso di essere riuscito a trasmettere questo messaggio, ad aver dato voce ai loro sentimenti, e ringrazio Ferrucio de Bortoli per esserne stato interprete così puntuale.
Tre anni di lavoro per documentare con la tua ricerca le conseguenze dell’estremo freddo in Mongolia, l’innalzamento del livello del mare in Bangladesh, la siccità e le guerre tribali per il controllo delle risorse in Kenya. E ora continui il tuo viaggio per riempire nuovi capitoli? Quali sono i Paesi che ti aspettano?
Per ora mi aspettano altri tre capitoli che ambienterò nelle Filippine, (cicloni e inondazioni), in Messico e in Senegal (desertificazione). Filo conduttore di tutto il lavoro sono le immagini e le interviste realizzate ai profughi ambientali nelle capitali dei singoli Paesi, dove sono emigrati nella loro “ultima illusione” di trovare una vita migliore.
Il tuo corredo di immagini si completa con le interviste realizzate ai profughi ambientali nelle capitali dei singoli paesi dove sono approdati nell’illusione di trovare una vita migliore. Come pensi di presentare una volta concluso questo immane lavoro?
Lavoro con le immagini fisse e sto lavorando anche con il video e l’audio con l’intenzione di poter presentare questo progetto sia sui supporti classici come libro e mostra ma anche su quelli digitali. Sto lavorando in diverse direzioni con l’idea di poterlo diffondere in maniera più ampia possibile.
Quali sono i maggiori riconoscimenti nazionali e internazionali che il tuo lavoro Migranti ambientali ha ricevuto?
Il lavoro è stato premiato oltre al premio Amilcare Ponchielli, promosso dal G.R.I.N., anche ai Sony World Photography Awards, Days Japan International Awards, Luis Valtuena Humanitarian Photography Awards, Prix de la Photographie Paris, Premio Luchetta e altri ancora. Inoltre è stato esposto in diverse mostre personali e collettive come ad esempio alla Royal Geographic Society di Londra, all’ International Center for Climate Governance e al festival Cortona on the Move. Uno dei prossimi appuntamenti sarà all’ Angkor Photo Festival in Cambogia, in novembre. Al di fuori dei circuiti classici della fotografia, un evento al quale sono stato davvero onorato di essere stato invitato a partecipare è la TED Conference di Berlino nel 2013 e, grazie a questo evento, mi reso conto che il mio progetto aveva davvero le potenzialità per raggiungere un pubblico molto vasto.
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