Presentato il 5 settembre nella sezione “Orizzonti” della 71° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, Nabat è il secondo lungometraggio di finzione del regista azero Elchin Musaoglu. Nella sua carriera ha diretto numerosi documentari sulla sua terra d’origine, l’Azerbaijan, e ha ricevuto numerosi riconoscimenti in festival di portata internazionale, tra cui Houston International Film Festival, Karlovy Vary, Cottbus International Film Festival.
A Venezia approda però con un film che narra la disperata storia d’amore di una donna verso il suo villaggio. Una lotta dolorosa contro una guerra civile che sta portando via i giovani migliori alla sua terra, tra cui il figlio della protagonista Nabat.
Il film si apre con dei lentissimi piani sequenza che seguono il percorso di Nabat dalla casa sperduta sulle colline in cui vive col marito malato, fino al villaggio vicino dove la donna porta il latte della sua unica mucca. Il paese si sta progressivamente spopolando degli abitanti terrorizzati dai bombardamenti notturni. L’albero di cachi spoglio, ma dai frutti generosi, sotto cui Nabat passa ogni giorno per entrare nel villaggio, rappresenta questo progressivo impoverimento della terra dei suoi figli migliori. La donna vive nel ricordo del figlio morto in guerra e nella speranza di ritrovarne in paese l’unica foto di cui era in possesso.
Le bombe continuano a piovere nottetempo e la mattina in cui Nabat troverà i frutti del cachi a terra coincide col definitivo spopolamento del villaggio. Le sue cure affettuose non bastano più a mantenere in vita il marito: emozionante e magistrale dal punto di vista fotografico è il momento della sepoltura. La donna da sola sotto un temporale battente trascina la mucca e il carretto con il corpo del coniuge. Giunge in cima alla collinetta su cui riposa il figlio e faticosamente restituisce l’uomo alla terra.
Da quel momento Nabat è l’unica rimasta. Lei e la guerra. Ogni giorno si reca comunque al suo villaggio, entra nelle case deserte e rispettosamente, in silenzio, depone un lume ad olio acceso dietro i vetri di ogni finestre. E ogni sera le fievoli luci provenienti dal villaggio le fanno un’amara compagnia, mentre le bombe non cessano di esplodere. Ripulisce la moschea, raccoglie i panni stesi di un’abitazione abbandonata, ma finisce per rassegnarsi all’idea di essere da sola in un paese che combatte una guerra crudele quanto inutile. Anche quando un lupo cade nella trappola nella sua proprietà decide di farlo scappare, evitando di sparare l’ennesima pallottola. Solo quando nella casa del fotografo del paese ritroverà una foto del figlio in divisa militare si sente l’animo rasserenato e, in un’atmosfera onirica e malinconica, decide di lasciarsi andare.
Le inquadrature ricche e quasi immobili riescono a raccontare il vuoto abissale del villaggio e delle colline di Nabat. I colori cupi del cielo e della terra arida restituiscono il dramma di una madre a cui è stato strappato l’unico figlio. Un film che denuncia la desolazione che la guerra lascia dietro di sé. In qualsiasi paese.
Merito va al regista che con la quasi totale assenza di dialoghi ha saputo trasmettere la crudezza della narrazione; merito anche alla bravissima Fatemeh Motamed Arya, attrice iraniana, che quasi da sola ha saputo portare avanti un film di notevole complessità. Una distribuzione sarebbe auspicabile, seppur l’attenzione che Venezia ha riservato alla cura dei sottotitoli in italiano è stata pressoché nulla.