Roberto Ciaccio interrogava la lastra, la carta, il colore. Lasciava che parlassero e si metteva da parte.
Spaventa oggi pensare a questo suo progressivo appartarsi dall’opera. Ora che non c’è più davvero.
E’ morto a Milano, sua città d’adozione, dopo poche settimane di lotta contro una malattia che gli ha rapito le forze e gli ha tolto il respiro, a soli 63 anni.
Ciaccio aveva già rinunciato al gesto, perché il segno poteva svelarsi da sé; aveva già lasciato che lo stampatore Giorgio Upiglio eseguisse, con quella sapiente manualità a cui lui invece abdicava.
Infine, aveva lasciato che la lastra da sola, nel suo riflettere la luce, colorarsi in modo diverso a ogni ora del giorno, rivivere a ogni presenza di fronte, assorbire colore o anche solo luce, fosse più profondamente matrice dell’opera. Opera stessa.
Questo percorso artistico illuminato da un’assoluta coerenza si è concluso con gli ampi riconoscimenti degli ultimi anni da parte non solo dei collezionisti, ma anche delle istituzioni che hanno ospitato i suoi progetti espositivi.
Vanno ricordate le mostre al Kupferstichkabinet dei Musei Statali di Berlino nel 2006, all’Istituto Nazionale per la Grafica a Roma nel 2008, a Palazzo Reale di Milano con una memorabile installazione site specific nella Sala delle Cariatidi nel 2011, e infine a Genova, in quattro sedi: Palazzo Nicolosio Lomellino, Palazzo Reale, il Museo d’arte Contemporanea di Villa Croce e Palazzo Ducale nel 2013.
Questa genovese, che ho curato io stessa supportata dal pensiero di Remo Bodei, non doveva essere l’ultima. Roberto Ciaccio aveva ancora tanti progetti: pensava già a qualcosa da fare a Venezia, e sognava da uomo, mentre l’artista già immaginava il riverbero delle luci lagunari sulle proprie lastre.
Luce e buio. Su questo contrasto ha impostato molta parte del suo lavoro. Il buio non era assenza, per lui, ma pura possibilità di presenze.
Dai fogli sottili imbevuti di colore nero, o viola scuro, i suoi “revenants”, appariva sempre qualcosa. Un’immagine flebile, sottile, pallida come un’idea.
I suoi monotipi su grandi fogli passati più volte sotto il torchio, lasciavano riemergere sagome di colore, tracce di tempo, evanescenti come il pensiero. Talvolta a forma di croce, ancor più spesso erano “soglie”.
Segni che oggi, senza Ciaccio, assumo altri significati a cui non si vorrebbe pensare. E Ciaccio troverebbe il modo di volgere al positivo la pregnanza semantica di questi segni ora così tristi.