La cosa che colpisce di più è quest’atmosfera quasi gioiosa, così elettrica, un po’ veloce, come quella che accompagna uno spettacolo più che un evento culturale.
Ma forse era proprio quello che volevano. Il Nuovo Museo Egizio di Torino ha aperto i battenti in questi giorni, una inaugurazione con una lunga coda di uomini politici e qualche vip molto popolare in posa attorno ai sarcofaghi e alle antiche reliquie, e poi un lungo mercoledì senza pagare il biglietto per tutti gli appassionati, fino alle 11 della sera, quando la fila si muoveva ancora in paziente attesa fra gli acciottolati di via Accademia delle Scienze.
E’ stato un successo, giusto dirlo. E non vale scrivere che sono gli spettacoli che hanno successo. In 6500 si erano garantiti l’ingresso sul sito internet, evitando le code. Gli altri si sono accalcati fin dal mattino e nel tardo pomeriggio erano diventati così numerosi da arrivare addirittura a piazza San Carlo lungo tutta via Maria Vittoria.
Bene. L’inizio è ottimo e c’è un bel clima di festa. Il ministro Dario Franceschini si presenta e dice che «il lavoro fatto qui credo sia il simbolo di molte cose che si devono e possono fare nel nostro Paese».
Cinque anni sono durati i lavori, senza che il Museo avesse mai chiuso, con un budget di 50 milioni di euro. Nel 2014 è riuscito addirittura a contare più di 567mila visitatori, nonostante tutti i disagi. Tempi rispettati, e anche questo è una nota di merito importante dalle nostre parti.
Fondato nel 1824, il Museo Egizio di Torino è annoverato tra i primi dieci più visitati d’Italia e tra i primi cento al mondo.
Adesso, dopo questi cinque anni di fatiche, lo spazio espositivo è quasi raddoppiato, arrivando a coprire circa diecimila metri quadri, disposti su quattro piani collegati da un sistema di scale mobili che nell’idea dello scenografo Dante Ferretti dovrebbero richiamare un ideale percorso di risalita lungo il Nilo.
L’effetto è ottimo, va detto. Solo che siamo sempre qui, con questa impressione a cui ci si deve abituare. D’altro canto il nuovo direttore (tutto è nuovo adesso attorno agli antichi cimeli), Christian Greco, l’aveva già annunciato da subito, in qualche modo: «Inauguriamo un museo archelogico, non più enciclopedico. E’ importante connettere i resti con i luoghi in cui sono stati trovati».
Greco è giovane, 40 anni freschi freschi, ma due di meno al momento dell’investitura, quando fu pescato in mezzo a insigni egittologi e serissimi ottuagenari, dalla sua cattedra d’esilio, all’Università di Leiden, Olanda, in perfetta linea con i tempi renziani, nel ruolo del rottamatore.
Certo, lui non lo direbbe mai e negherebbe con un po’ di scandalo. Però dopo di lui, al Museo Egizio sono arrivati altri 7 professori, tutti giovanissimi. E appena nominato, Christian Greco teorizzava aristetolicamente «l’esigenza di restare stupiti davanti all’estetica e nel contempo di essere meravigliati per la storia che gli oggetti racchiudono».
Una ammirazione spettacolare, siamo sempre lì. Se tutto questo sembra riuscito perfettamente, il fatto è che forse anche la vita del Museo pare essersene adeguata, ed è questo che non piace troppo ai paladini della seriosità della cultura.
Così, Dagospia scrive che l’impressione soprattutto nel giorno dell’inaugurazione è quella che «bisogna suscitare curiosità» a tutti i costi, «evocare il mistero con serata a tema magico». Dimenticando forse che qui il mistero e la magia ci sono già, nella naturalità delle cose, nei ritratti indelebili della sua storia.
Vediamo di capirci. Da quando l’egittologo Drovetti fece giungere attraverso itinerari complessi e diversi i pezzi che raccontavano l’arte e la storia dell’Egitto, questo Museo è diventato per importanza il secondo al mondo, dietro solo a quello del Cairo.
Qui l’arte antica stupisce da sola, senza effetti speciali. E allora può essere che a qualcuno non sia piaciuta la festa dell’inaugurazione, questo clima particolare, come ha scritto sempre Dagospia, «con Evelina Christillin, la dea Iside del Museo, che si aggira tra i sarcofaghi come a un party o a un consiglio d’amministrazione».
Certo è che sui giornali e alla tv non c’erano commenti insigni per l’occasione. Bisognava accontentarsi di Al Bano e Tavecchio. Il primo ha ringraziato il museo che gli ha fatto scoprire le piccole e grandi cose del passato, «quelle che ci spiegano come eravamo e chi siamo». Tavecchio ci ha raccontato che da bambino collezionava le dispense sugli egizi. Bravo.
Di sicuro non l’ha imparato lì che «Optì Pobà mangiava le banane» e adesso lo facciamo giocare da titolare nelle nostre squadre di serie A…
Info: Museo Egizio di Torino