La cultura fa bene alla Nazione. Questo mantra sta ormai diventando tanto inflazionato che quasi non c’è più bisogno di ripeterlo.
Ma lo Stato lo pensa davvero?
Perché oltre a ribadirlo in occasione di convegni, di reportage televisivi e di qualche propaganda a 140 caratteri, bisogna creare le condizioni perché la cultura, se davvero costituisce un bene “strumentale” alla crescita della nostra democrazia, debba essa stessa crescere, espandersi.
Per quanto ad un occhio ragionevole possa sembrare lineare che all’affermazione “la cultura conta” segua una “policy che ne agevoli lo sviluppo”, questo strano virus della ragionevolezza sembra non aver assolutamente contagiato i nostri decisori pubblici.
Ne è la riprova il sistema arzigogolato delle aliquote fiscali legate ai beni culturali, e in particolare alle opere d’arte, da un lato trattate come beni socialmente desiderabili, dall’altro invece come meri merci di consumo.
Andando più nel dettaglio, in Italia vige un particolare sistema fiscale per quanto riguarda le opere d’arte, che varia a seconda del soggetto che cede l’opera e del contesto in cui questa cessione ha luogo.
Se, ad esempio, a cedere un’opera d’arte è un privato cittadino si applica un particolare regime fiscale definito “Regime di Margine”: secondo questo regime a costituire parte imponibile (e quindi la cifra che è soggetta a tassazione) non è l’intero ammontare della transazione, ma solo il “maggior valore” percepito da chi cede, e che è rappresentato dalla differenza tra il prezzo d’acquisto e di vendita dell’opera. Il risultato di questo regime è che a fronte di una elevata aliquota IVA sulle transazioni, ci sia un basso effetto diretto sulle transazioni stesse.
Fin qui tutto bene, ma purtroppo, questo regime si applica soltanto nel caso in cui il bene risulti acquistato da un “privato”, mentre per quanto concerne l’acquisto da parte di gallerie o soggetti detenenti partite IVA l’aliquota IVA viene applicata in regime ordinario (22% sul valore totale della transazione) generando non poche distorsioni all’interno del mercato.
Se a ciò si aggiunge che il sistema fiscale italiano preveda per le tasse di successione, una aliquota che va dal 4% fino all’8% e che tale aliquota può anche rientrare all’interno di un regime forfettario, il mosaico che si compone è abbastanza chiaro e restituisce l’immagine di un Paese che continua anacronisticamente a favorire una concentrazione di cultura nelle mani di una classe elitaria piuttosto che cedere al sacrilego “mercato” la possibilità di espandersi.
Tradotto in numeri, il risultato sta in quel misero 1% che il mercato dell’arte italiano rappresenta nello scenario internazionale.
E questo significa minor numero di transazioni, minore circolazione dei beni artistici, minore attività imprenditoriale legata all’arte e di conseguenza un minor gettito fiscale aggregato e una minore crescita economica di medio periodo legata al settore.
Perché che un’eccessiva pressione fiscale agisca in maniera negativa sullo sviluppo di un’economia nel medio periodo, è un dato noto a tutti. Così come siamo tutti consapevoli dei meccanismi attraverso i quali questo risultato si raggiunga: da un lato, una troppo elevata pressione fiscale e tributaria genera un disincentivo alla creazione di nuove imprese, che si trovano a dover fronteggiare una mole di contributi eccessivi, che si ripercuotono sul prezzo finale dei prodotti e/o servizi; sul fronte della domanda, invece, uno Stato troppo presente genera un calo dei consumi, perché se i prezzi salgono più degli stipendi medi, i beni che si possono acquistare sono meno; genera malcontento nei confronti della Pubblica Amministrazione perché i cittadini, che quotidianamente combattono tra imposte dirette ed indirette non trovano un sistema di welfare che le giustifichi; infine, generano evasione fiscale, perché in questo scenario l’incentivo a non emettere fattura, a richiedere un pagamento in contanti a fronte di una minore tassazione è veramente forte.
Questo è ancor più vero quando questa pressione fiscale e tributaria si riverbera su settori che non soddisfano bisogni primari e che tuttavia concorrono alla costituzione di una società sostenibile, come richiesto non solo dal buon senso, ma dallo stesso Stato Italiano recependo le Strategie dell’Unione Europea.
Ne è la prova la recente proposta del Ministro Franceschini di ridurre l’aliquota IVA sugli ebook al 4% come avviene sull’omologo cartaceo. In questo caso la risposta europea è suonata alquanto burocratica (e sconcertante): tale aliquota può essere applicata allorquando il bene sia provvisto di supporto (in questo caso la carta).
Paradossalmente dunque, nulla vieterebbe, se non una visione statalista, centralista, e pseudo-intellettuale, di applicare tale aliquota alle opere d’arte, che nella maggior parte dei casi sono dotate di supporto, ma questa proposta non sembra essere stata avanzata dal nostro governo, forse perché il mercato dell’editoria, nel frattempo, ha avuto modo di espandersi e fare lobby, mentre quello del mercato dell’arte può poco nei confronti di coloro che invece sono attualmente agevolati, a scapito dell’economia nazionale.
Per chi non l’avesse capito, stiamo parlando di cultura. E di come nel nostro Paese questa leva di sviluppo incredibilmente potente, che unisce effetti economici, umani e sociali, venga ancora considerata il fiore all’occhiello di un salotto romano.