L’abbiamo conosciuto per le carcasse di animali immerse nella formalina, per il teschio in platino rivestito di migliaia di diamanti e le teche ricolme di pillole colorate. Damien Hirst torna a far parlare di sé con un progetto colossale inedito, allestito a Venezia, tra Punta della Dogana e Palazzo Grassi. Sino al 3 dicembre.
Damien Hirst è un cantastorie. Lo è sempre stato. Noi, pubblico, siamo come le mosche attirate nelle zanzariere elettriche più volte adoperate dall’artista inglese nelle sue installazioni. Le sue opere, invece, sirene che seducono e con l’inganno chiamano verso la morte i più sprovveduti. Non è un caso che, da qualche giorno, una meravigliosa creatura marina, metà donna e metà pesce, presieda l’estremità dell’antica Dogana da mar della Repubblica di Venezia, oggi Punta della Dogana, una delle due sedi della Fondazione Pinault che, il 9 aprile, ha aperto ai visitatori Treasures from the Wreck of the Unbelievable, la prima grande personale in Italia dedicata al ragazzaccio della Young British Art degli anni novanta, dopo la retrospettiva del 2004 al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Ormai siamo abituati ai suoi eccessi, conosciamo bene le sue ossessioni, il suo gusto collezionistico per l’insolito, il meraviglioso, l’incredibile, appunto. Ma stavolta Damien Hirst (Bristol, 1965) ha superato se stesso e ogni aspettativa. Stavolta non si è trattato solo di lasciarci a meditare sulla bellezza crudele della morte di fronte a uno squalo in una vasca di formaldeide, ma di inventare un’intera realtà, con una premessa storica credibile e una mole smisurata di materiali e documenti a sorreggerla. Gli ci sono voluti anni e un lavoro di ricerca e produzione immenso, ambizioso per non dire folle, che ha trovato sponda nel trentennale rapporto di stima, ammirazione e fiducia reciproca che esiste tra l’artista e il signor Pinault.
Tutto ha inizio con una leggenda: tra il I e il II secolo d.C., uno schiavo affrancato originario di Antiochia, Cif Amotan II, sfrutta la sua ricchezza per accumulare oggetti, ori, rarità della natura e opere d’arte da tutto il mondo. Decide poi di trasferire la sua eclettica quanto preziosa collezione su un’isola nell’Oceano Indiano, dove aveva fatto erigere un tempio dedicato al dio Sole. Ma il vascello – chiamato Apistos, “incredibile” – affonda prima di arrivare a destinazione, trascinando nelle profondità del mare il suo carico di incommensurabile valore. Con il passare dei secoli, la sua esistenza diventa una diceria, finché non viene riscoperto nel 2008 al largo della costa orientale dell’Africa. Ed ecco che entra in scena Damien Hirst che decide di finanziare le operazioni di recupero e, infine, di esporre al pubblico l’enorme tesoro riportato alla luce nei 5mila metri quadri distribuiti tra Punta della Dogana e Palazzo Grassi. Questa la storia che ci viene presentata all’ingresso della mostra, assieme a dei video e a una serie di lightbox che documentano la campagna archeologica subacquea, firmati da Christoph Gerigk, il migliore sul campo, uno che, tra le altre cose, ha fotografato i resti sommersi dell’antica città egizia di Herakleion.
Damien Hirst ci chiede un atto di fede. Ci convince a lasciare andare ogni reticenza, a sospendere l’incredulità e abbandonarci alla meraviglia. Così, una volta varcata la soglia della mostra, le convinzioni vacillano, il reale affonda mentre emerge un mondo straordinario di colossi di bronzo, teschi di ciclopi e unicorni, marmi bianchi lucenti, teste di Medusa in giada e malachite, opere imponenti ricamate di coralli, conchiglie e concrezioni marine. Il tormento formale della scultura ellenistica e la teatralità dell’arte barocca si confondono con la violenza spinta della cultura visiva contemporanea. Gli idoli di oggi si celano dietro a divinità del passato. Hirst descrive un nuovo pantheon come fosse un Omero della contemporaneità. Intreccia storia e mito, finzione e realtà, in una narrazione espositiva stratificata e con una punteggiatura perfetta. In mezzo, il visitatore, frastornato, stupito, incerto se abbandonarsi al delizioso oblio del racconto, senza farsi troppe domande, o il restare vigile per cogliere e interpretare la marea di riferimenti iconografici presenti, più o meno sfacciati, dall’antico Egitto al caro amico Jeff Koons, dagli Aztechi alla Disney.
Ritornano le vetrine tanto amate dall’artista inglese, ma invece di antidepressivi e viagra ci sono monete provenienti da antiche civiltà, minerali,lingotti d’oro e monili di varia foggia e provenienza. Ogni singolo pezzo in esposizione è accompagnato da un’esegesi dettagliata e Palazzo Grassi sembra tornare indietro di decenni, all’era pre-Pinault, quando le sue sale ospitavano straordinarie mostre archeologiche.
I grandi temi cari a Hirst ci sono tutti, ma in altre vesti. Religione, scienza, arte, vita e morte. Il tempo che scorre e deteriora ogni cosa e l’arroganza dell’uomo, di qualsiasi epoca e luogo, di sconfiggere tutto questo. Che sia con la formaldeide o con una storia epica che sopravviva al suo creatore e ne consegni il nome alla memoria eterna.
INFORMAZIONI UTILI
Treasures from the Wreck of the Unbelievable. Damien Hirst
sino al 3 dicembre 2017
Fondazione François Pinault,
Palazzo Grassi, Campo San Samuele 3231, 30124 Venezia
Punta della Dogana, Dorsoduro 2, 30123 Venezia