Jean Boghossian è il protagonista di un Padiglione che coniuga la ricerca artistica contemporanea con la storia, la spiritualità e la cultura del popolo armeno, in una personale curata da Bruno Corà. A Palazzo Zenobio, Dorsoduro, 2596, Venezia. www.labiennale.org
Venezia. Buone notizie, cicogna? In un verso di una canzone degli esuli della diaspora armena, si domanda a un cicogna che incrocia nel cielo se dalla Patria arrivino buone notizie. Ma queste notizie, erano sempre di prevaricazioni, massacri, povertà, ingiustizie, che il popolo armeno ha dovuto subire negli ultimi mille anni, fino all’indipendenza dichiarata e ottenuta nel 1991. Ancora oggi, nel maestoso paesaggio di quest’ultimo lembo meridionale d’Europa appena prima della vastità dell’Asia, aleggia il persistente ricordo di ferite ancora aperte, e nelle opere di Jean Boghossian (Aleppo, 1949), si avvertono le ombre di un passato doloroso e glorioso insieme: il popolo armeno fu tra i primi a sviluppare una sua scrittura, diversa da quella latina, all’inizio del V Secolo, e con quella a inaugurare una lunga tradizione di manoscritti antichi di otto e persino dieci secoli, che ancora oggi costituiscono una delle collezioni più preziose del Matenadaran, il Museo degli antichi manoscritti di Erevan. Rotoli di pergamena che documentano le tradizioni religiose del popolo (il primo ad abbracciare il cristianesimo nel 301), ma anche gli usi e costumi quotidiani. Un patrimonio identitario che è appunto sopravvissuto nei secoli, fra guerre e persecuzioni, e che nella Biennale dell’Arte Viva, si incastona come una testimonianza assai preziosa, artistica e intellettuale insieme.
Cuore della mostra, l’installazione Fiamma inestinguibile (che dà il nome all’intero progetto), appositamente concepita per la sala principale di Palazzo Zenobio, e che si amalgama con gli affreschi dei quali riprende i colori scuri e l’aura monumentale. L’idea, suggestiva e poetica, ha un duplice aspetto: da un lato, quella della cultura come luce della civiltà, necessaria per misurare le caverne di platonica memoria. Ma dall’altro lato, con struggente intuitività, Boghossian rimanda alla straordinaria forza che la cultura ha dimostrata nei secoli, resistendo a terribile persecuzioni. Persecuzioni che non hanno risparmiato il popolo armeno, costantemente minacciato nei secoli dai califfati islamici prima e dagli Ottomani poi, fino alla dittatura sovietica. Grandi steli monumentali si dipartono da grossi libri bruciati, posti alla base di ognuna: metafora del sapere che dalla fragile carta s’irradia e mette robuste radici fra gli individui. Ognuna delle steli è decorata con motivi che ricordano le scritture orientali antiche, da quella armena a quella araba, dalla siriana all’egiziana, poiché è la scrittura il mezzo fondamentale per tramandare il sapere. Da un punto di vista leggermente diverso, Boghossian suggerisce l’idea della cultura che risorge dalle proprie ceneri come un’araba fenice: è accaduto in Armenia, dopo le distruzioni delle orde musulmane, così come dopo il genocidio del 1915, e settant’anni di Socialismo Reale. Ma è accaduto anche nel resto d’Europa, dalla censura dell’Inquisizione fino ai roghi dei libri “deviati” organizzati nella Germania nazista.
Partendo da questa installazione, la curatela di Bruno Corà ha organizzata la mostra seguendo il fil rouge del fuoco e del fumo come elementi costituivi della cifra artistica di Boghossian; pur se nel passato questi elementi sono stati utilizzati, fra gli altri anche da Klein, Burri, Arman, l’artista armeno è l’unico che abbia dato continuità a questa tecnica. Pur nell’astrazione delle forme, resta il valore simbolico del fuoco e del fumo: da mezzi per manipolare la tela – combinandoli con pigmenti naturali per ottenere un effetto “antichizzato” -, creano atmosfere oniriche che rispondono all’urgenza di trasferire su una dimensione più accettabile la violenza della Storia. Una poetica astratta nella forma, ma dai concetti profondamente legati alla realtà storica. Certe tele ricordano l’Action Painting di Pollock, con la differenza che i punti scuri non sono macchie di colore ma bruciature, dietro le quali si cela un riferimento storico-biografico: di famiglia armena, ma nato in Siria e cresciuto in Libano negli anni della guerra civile, Boghossian ha ancora viva la memoria delle distruzioni belliche, e quelle bruciature simboleggiano i fori dei proiettili sui muri di Beirut, così come quelli sui muri alle spalle degli armeni fucilati durante il genocidio del 1915.
Certi sfondi siderali sono invece apparentabili alle tele di Omar Galliani, ma ancora una volta la fiamma e la bruciatura sono le cifre che distinguono l’opera di Boghossian, la cui poetica artistica non prescinde dalla sua identità armena e, per successive influenze, mediorientale, e nelle sue sperimentazioni ne traccia per simboli le vicende. Così come ne omaggia il patrimonio culturale, nel frequente richiamo agli antichi papiri e manoscritti egiziani, mesopotamici, siriani, armeni; in particolare in queste opere, la fiamma assume un calore vitale particolarmente intenso, simbolo di una cultura trasversale che per secoli ha unito popoli diversi, e che può ancora rappresentare la chiave per una migliore convivenza civile.
Una mostra affascinante e coinvolgente, dall’afflato storico ma dal linguaggio contemporaneo, che dà la misura della potenza dell’arte nel gettare ponti di dialogo e speranza.
La guida completa della 57^ Biennale: http://www.artslife.com/2017/05/08/biennale-di-venezia-2017-57-edizione-guida-completa/