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Memorie dal sottosuolo

Un impiegato statale del grado più basso, una vita ai margini nella Pietroburgo di tardo ottocento; “ridicolo”, l’ aggettivo che segna un’intera esistenza, croce e delizia del protagonista. La neve sottile accompagna l’entrata di Arkadij Dolgorukij che, ubriaco, crolla sul gelido suolo. L’aria fredda e il terreno fangoso accolgono per l’ennesima volta le sue frustrazioni: una lite con un ufficiale, l’incapacità di rispondere alle offese, lo smarrimento, il desiderio represso di volerlo sfidare in un duello alla polacca, molto romantico, troppo libresco. La beffa dell’essere nulla e il rifugio nella vodka perché, in Russia fa freddo, e ci si può scaldare in uno di quei posti dove giovani donne sono vendute per pochi rubli, dove Liza sogna un futuro felice in cui non avranno più importanza gli uomini conosciuti e l’adolescenza perduta.

Un incontro, fra i due, destinato a divenire l’infimo pretesto di una rivalsa, della crudele rivendicazione da parte dell’uomo del sottosuolo in virtù di una presunta superiorità etica e intellettuale. L’arte schiacciata nell’impotenza di poter collimare con la vita, l’arte che fa esclamare: “Sono ripugnante in sommo grado; un uomo di buongusto dovrebbe morire a quarantacinque anni, solo i porci campano fino a quarantacinque anni…allora io camperò fino a centoquarantacinque anni”. In un’ora e mezza di rappresentazione, scandita, sul palco, la dicotomia inaccettabile di voler essere e, contemporaneamente, la consapevolezza di non poter essere. Né buono né cattivo ma, semplicemente, il nulla. Una mimica e una gestualità sorprendenti che, in accordo con Kafka, tentano invano una metamorfosi scarafaggesca: “Voglio diventare uno scarafaggio, qualunque cosa è meglio di un uomo.” La malattia di una lucida coscienza che può far apprezzare sotterranei, raffinati godimenti, ma che disabitua al mondo rendendo il sottosuolo l’unica dimensione accettabile. L’uomo come bipede ingrato, mosso, nelle sue azioni, dall’irragionevolezza, diretta conseguenza della sua immoralità. Il sofferto compiacimento del proprio degrado, dell’offeso che offende, dell’umiliato che umilia, nell’esaltazione assoluta del libero arbitrio. Personaggi incatenati da stereotipi letterari, di cui fa parte anche Apollon, servo anziano e malandato di Arkadij, conquistato dal parlar sacro. Una trasposizione teatrale molto alleggerita, anche grazie alle ironiche recite dei salmi biblici, rispetto al testo di Dostevskij, ma che non perde mai di vista gli snodi centrali della “confessione”, concludendosi con la rinuncia definitiva all’affrancamento dalla sua misera condizione. Disprezzando l’unica donna in grado di amarlo, l’uomo russo si confina nella mediocrità pur di poter continuare a giocare con la letteratura, fingendo un distaccato stupore all’inglese, un annoiato sospiro alla francese, una spavalda seduta alla russa. Con un deus ex machina si rivela, infine, Gabriele Lavia, facendoci intravedere, con ragionato disincanto, le possibilità di un’esistenza che va ben oltre la staticità di uno schermo, le luci di un teatro, le pagine di un libro. Le potenzialità di un’esistenza non scritta ma vissuta.

INFO: prossima tappa, al Teatro Goldoni
di Venezia, a partire dal 9/04.
Per biglietti e prenotazioni:
www.ticketone.it

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