“PERCHE’ L’ARTE CONTEMPORANEA E’ DAVVERO ARTE”
I° edizione aprile 2007 – 14° ristampa 2008 – 15,00 euro
(clicca qui per leggere un’intervista in cui parla della mostra “Italics” che ha rilasciato ad ArsLife)
Non conoscevo Bonami di persona. Voglio dire non lo conosco neanche ora, ma direttamente dai testi abbiamo chiacchierato. Tutti noi abbiamo un sacco di amici -chissà forse i migliori- le cui voci conserviamo tra gli scaffali di casa. Ora Francesco Bonami è un mio amico. Mi sembra di conoscerlo da sempre. Abbiamo molte idee in comune. E, fortunatamente, diverse opinioni in disaccordo.
Tra queste ultime, ad esempio, la titolazione che ha accompagnato la sua brillante scrittura sugli scaffali del mass-market. Il libro si intitola “Lo potevo fare anch’io”, parafrasando l’ovvia e rozza opinione comune espressa davanti a un’opera d’arte contemporanea. Sia concesso. Gli editor mondadoriani si eccitano sempre di fronte all’analfabetismo specchiato. E fanno il verso (zoppicante) al celebre “Io speriamo che me la cavo”.
Ma la gemma sta nell’occhiello che recita: “Perchè l’arte contemporanea è davvero arte”. Una sorta di tautologico e falso sillogismo. A me è venuto in mente un litigio in casa di un industriale italiano; mi presentarono un brutto ceffo che mi sciorinò tra le mani un biglietto da visita con scritto “Indipendent Curator”. Il tipo si incazzò (con il turbo) quando innocentemente gli chiesi: “Scusi, ma se lei è ‘indipendent’ perché lo scrive?”. Insomma, se l’arte è contemporanea perché mai non dovrebbe essere arte? Forse nel Bonami-book sarebbe stato più intelligente un occhiello tipo: “I motivi per cui (alcuni) contemporanei sanno fare vera arte”. Tant’è.
Lasciamoci alle spalle queste riflessioni da accademia cruschiana ed entriamo nel merito di questo divertente saggio. Il Bonami-pensiero procede nello spiegarci -con parole semplici- che cos’è l’arte contemporanea. In realtà sono dell’avviso che Francesco nel complesso si cimenti più nel discorrere intorno al concetto di contemporaneità piuttosto che intorno a quello di arte. Ma questo lo vedremo in seguito. I capitoli sono brevi e succinti; gradevolissimi nelle idee e croccantissimi nella scrittura. Ci conducono a compiere un excursus intorno ai nomi oggi più gettonati sul mercato internazionale della Contemporary Art.
Bonami ci prende per mano, insegnandoci perché dipingere può persino sembrare obsoleto. O per quale motivo il valore estetico della fotografia sia riuscito, dal lontano 800, a divincolarsi dal servilismo realista. Poi, ovviamente, si sofferma a pontificare Marcel Duchamp. Il profeta del Concettualismo. I capitoletti che si susseguono sono piccoli capolavori. Vere gemme. Ci narrano di Lucio Fontana (“Dacci un taglio”), Jackson Pollock (“Ridere sul colore versato”), Andy Warhol (“A me me piace Andi Varol”), Lucien Freud (“Il lettino del ritrattista”), Gerhard Richter (“Questioni di sfumature”), Anish Kapoor (“Buchi neri colorati”), Robert Mapplethorpe (“Ammapplethorpe”), Richard Prince (“Il Copywrong”), Robert Rauschenberg (“Ma che combinazione!”), Joseph Beuys (“Hello Beuys”), Christo (“Che pacco!”), Matthew Barney (“Testi-cola”), Damien Hirst (“Il signore delle mosche”), Jeff Koons (“La Mona Koonsa”), Keith Haring (“Soltanto qualche graffio”), Takashi Murakami (“I giappolesi”), Maurizio Cattelan (“Il complesso e l’estasi”), gli artisti dell’ Arte Povera (“La guerriglia in bottiglia”), quelli della Transavanguardia (“Trangivanguardia”), l’ East Village (“Il carnaio dell’East”) e Daniel Spoerri (“Il ristorante”). Bonami vola con le parole e le immagini. Riuscendo quasi sempre a collocare alla perfezione la poetica degli artisti con la situazione storica e sociale in cui ciascuno di questi maestri ha lavorato. La sensazione complessivamente è piacevole.
Sembra di scivolare per mano sui cataloghi delle principali aste di Christie’s o Sotheby’s (quelle di New York o Londra) accompagnati dalla nostra indimenticabile maestra (unica!?!) delle elementari. Lo dico senza polemiche. Anzi! Un piccolo bagno di umiltà farebbe bene anche a chi, tra di noi, pensa già di aver capito tutto e di conoscere chiunque bazzichi nell’arte. Non è così. Bonami su molti aspetti è (semplicisticamente) illuminante. Di ciò non possiamo che rendergli merito.
Ma il nostro disaccordo sta nella percezione netta che tutto il suo dire, tutte le sue visioni, tutta la sua interpretazione intorno alla poetica di questi maestri (per altro fotocopiati dai listini delle vendite all’asta) ha l’apparenza d’essere troppo incatenata al Concettualsimo. Come dire che avremmo anche voluto leggere e volare, attraverso l’intelligenza bonamiana, sui pesi nei volumi dei tagli di Fontana ma anche nelle pennellate di Freud o nelle pennette di Spoerri. O sulle vibrazioni cromatiche pollockiane, mai così sapientemente posate come nemmeno Jung avrebbe potuto presumere. Insomma volevamo sognare che il linguaggio artistico ha sì a che fare con la società. Ma nella misura in cui crea un suo proprio codice linguistico. Che nulla o quasi condivide con le parole, con le immagini, con le scorreggie del bar, della televisione o delle aule (persino parlamentari).
Insomma che l’arte ha una sua propria grammatica e sintassi che sì viene dal sociale, promana dalle piazze. Ma suona e vola ben oltre tutto ciò. Sì Francesco, avremmo voluto anche sentirti parlare di questo e molto meno del cazzutissimo mondo. Non perchè l’arte contemporanea sia astrusa dalla realtà ma perchè i suoi fucili si chiamano colori, volumi, spazi, immagini, suoni, materia, profumi, odori. Insomma ciò che gli antichi greci chiamavano “aisthesis”. Ossia sensazione. Da cui la parola “estetica”.
Bonami ricade un poco nel gorgo del Concettualismo e del Poverismo. Quando scrive: “Il problema non è quindi dell’arte che deve ritrovare se stessa, come molti dicono, ma della società che deve ritrovare l’arte, al di là dei numeri, dello spettacolo e della fottutissima comunicazione” noi troviamo l’eco a questa nostra idea che esplode in cielo. E’ chiarissimo che l’arte assecondi l’impermeabile principio della “mimesis” (l’imitazione mimetica) tracciando in filigrana la cifra, l’essenza della contemporaneità.
Ma è altrettanto vero che il principio dell’immaginazione (non solo kantiana ma per intenderci persino quella “dialettica” di Horkheimer) oltrepassa il reale, nei casi migliori lo anticipa persino nelle lodi o nelle critiche. Insomma l’arte non può avere la società contemporanea (nel nostro caso in sfacelo) come una palla al piede. Noi rivendichiamo il diritto-dovere al sogno e al delirio della felicità persino di fronte alle montagne maleodoranti delle trasmissioni televisive italiane. Dei calciatori. Dei politici. Delle soubrette. Dei critici cinici. Degli artisti servili. E persino dei virus-Boteriani in circolazione.
Bonami sa fin troppo bene che una parte del pubblico che desidera incantare è rappresentato dalle migliaia di piccoli e grandi collezionisti d’arte antica pronti a osservare la contemporaneità con la puzza sotto il naso. L’attacco del suo saggio è folgorante: “Questo libro è stato scritto pensando non agli addetti, ma ai distratti ai lavori”. Se davvero desidera ciò, deve comprendere che la ricerca artistica può finalmente uscire dalla schizofrenia che confonde l’artista con il filosofo, il politico e (ultimamente) il commercialista. Se non addirittura il finanziere.
L’artista è solo un artista. Come fosse poco! Come fosse niente! Lui che ha dipinto lo sa benissimo. Non può averlo dimenticato. Chi impara ad andare in bicicletta non se lo scorda mai. Chi ha compiuto anche un solo passo dentro la luce dell’arte, magari per comprendere quanto sia più bravo nel goderla piuttosto che produrla, chi ha varcato per un solo istante questa soglia sa molto bene quello che dice. Non può barare. Nemmeno con se stesso. Anche per questo riesce e interpretare magicamente la visione degli altri artisti.
Nella parte finale del suo libro Bonami si addentra con vigore nella stagione italiana dell’arte contemporanea. Tracciando un filo che svergogna un’italietta incapace di affermarsi nel panorama internazionale dell’arte per il semplice motivo che ha esteso i suoi metodi politici persino al mondo accademico o delle sperimentazioni estetiche. Le critiche ai fratelli Pomodoro, a Renato Guttuso, Giulio Turcato, ma anche a Fabrizio Plessi, Giuliano Vangi o Giacomo Manzù sono serratissime e ferrate. Il capitolo su Giorgio de Chirico una chicca.
La conclusione è piuttosto disarmante. Dopo la politica sembra che l’arte sia eccitata solo dal mercato. Dal Concettualismo all’Economicismo. “Chi afferma che l’arte, ossessionata solo dal mercato, non ha più impatto sulla società, s’informi meglio e più che altro si chieda se non è la società, superficialmente coinvolta con il mondo, a non avere più impatto sull’arte”. E ancora: “Se il messaggio politico è da sempre uno dei soggetti dell’arte, anche il mercato è sempre stato uno degli ingranaggi che hanno fatto muovere la storia dell’arte…non è né un bene né un male, è semplicemente un dato di fatto, con tutti i suoi difetti e le sue qualità”.
Così il nostro amico Bonami auspica che “Qualcuno dovrebbe scrivere un volume dal titolo Da Picasso al culo. Il collezionismo d’arte dall’oggetto al soggetto, intendendo per oggetto Picasso e per soggetto il culo”. Buona idea. Speriamo che -almeno in questo caso- si parli meno di politica o di economia. E molto, molto più della forma. Grazie Bonami. Un libro da comprare. E leggere d’un fiato.
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