RUOTARE IL PRISMA
“Uno dei luoghi che danno la più elevata idea dell’uomo”, scriveva André Malraux ne “Il museo immaginario”. Oggi non è più così, dicono, perché il museo come figura della coscienza collettiva o come luogo di ricerca e meditazione sta svanendo. Al suo posto: il trionfo del (con)temporaneo, fra l’ansia di storicizzare in presa diretta e la tirannia di architetti, allestitori, bookshop e caffetterie. E i numeri, soprattutto, impietosi nel decretare il successo o il fallimento di una mostra. Che, senza almeno uno straccio di Monet o Van Gogh, è destinata all’inesorabile fallimento. Grandi carrozzoni itineranti, questi spettacoli circensi rubano spazio e denaro alle collezioni, che “tanto sono sempre lì, le vedremo un’altra volta”. E così la funzione classificatoria e scientifica del museo cede il passo al management, al target/ticket/budget, al modello white cube che è in fondo quello del non-luogo.
Da memoria ad oblio: il passo è breve. Esistono tuttavia modelli alternativi, che sviluppano ipotesi ibride, che non rinunciano alle funzioni classiche del museo (classificazione, interpretazione, storicizzazione) ma che allo stesso tempo garantiscono al visitatore occasionale una metabolizzazione rapida e soddisfacente. E’ il caso della GAM, la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino. L’ interpretazione che ne ha dato il nuovo direttore Danilo Eccher probabilmente nasce da considerazioni di questo tenore sul destino delle istituzioni museali. Una collezione permanente di 45.000 opere, dal tardo ‘800 alla contemporaneità più stretta. Ecco come valorizzare un simile patrimonio, complesso ed eterogeneo, con una mossa tanto semplice quanto ragionata: ruotare il prisma della storia e dello sguardo critico, far convivere le epoche perché “all art has been contemporary”. Al bando quindi la noiosa e scontata progressione cronologica, e via ad un ambizioso progetto quinquennale di allestimenti tematici trasversali. Ogni anno quattro aree curate da studiosi di diverse discipline, per far emergere riflessioni inedite dalla vita silenziosa dei capolavori. Le opere infatti restano protagoniste indiscusse al di là del concept, ed anzi brillano di nuova luce grazie agli accostamenti azzardati. Ma si sa, senza rischio non c’è innovazione, tanto più se le visioni sono sorrette da impianti teorici di spessore. Di fronte agli occhi del visitatore si svolge un passato diverso e avvincente, non cristallizzato nella sequenza rigida dei secoli ma fluido, composto da traiettorie inaspettate quanto pertinenti. Prendiamo il genere del paesaggio, un luogo talmente frequentato dalla pittura ottocentesca da essere diventato stereotipo (che, senza il french brand degli Impressionisti, non funzioni). La ricchezza dello sguardo di quei poeti del colore e della luce (Pellizza da Volpedo e Fontanesi su tutti) rischia di andare perduta, perché si sovrappone con lo sguardo digitalizzato del 2009 che non ammette soste né contemplazioni. Ma i meccanismi raffinatissimi che hanno generato una pittura che è soprattutto meditazione sulla natura, si possono riattivare nei dialoghi con la contemporaneità degli Igloo di Mario Merz, delle colature di Cy Twombly o delle visioni urbane del primo Schifano. E’ stupefacente notare come grandi capolavori entrino naturalmente in simbiosi, nutrendosi a vicenda nonostante il concetto stesso di natura non sia più lo stesso. Eppure la natura di Fontanesi non è così lontana dalla città, fanno parte dello stesso articolato paesaggio. Ruotando il prisma, sull’orizzonte della storia dell’arte danzano le opposte spiritualità di Gormley e Sartorio, il paesaggio diventa astrazione, il ritratto è sempre metalinguaggio e Balla “cita” Pistoletto. I piani di interpretazione soddisfano entrambi: il visitatore occasionale, che attraverso un’esposizione anti accademica gode di un ritmo non lineare, e l’addetto ai lavori, costretto a rivedere i propri schemi. Un percorso a tratti entusiasmante, come nella sala in cui l’eterna lotta con la forma di Medardo Rosso si accende dei colori selvaggi del gruppo Cobra. Altre volte l’equilibrio sfugge, ad esempio quando le piccole astrazioni di Osvaldo Licini soffrono al fianco di una parete stonata e rumorosa di Nicola De Maria. Ma nel complesso la sensazione è di un esperimento riuscito senza forzature, che fra l’altro crea aspettative per l’anno prossimo. Quando la danza delle opere ricomincerà dietro un’altra rotazione del prisma.
Il progetto espositivo
(dal comunicato stampa)