UGO MULAS
LA SCENA DELL’ARTE
Torino, GAM dal 26 giugno al 5 ottobre 2008
Dopo il grande successo di pubblico e di critica delle esposizioni di Roma (MAXXI) e Milano (PAC), la GAM di Torino ospita a partire dal 26 giugno la grande retrospettiva dedicata a Ugo Mulas. Per la prima volta in Italia tre città e tre musei hanno realizzato in stretta collaborazione una vasta mostra dedicata a uno tra i più apprezzati fotografi italiani, dagli esordi alle opere estreme. A Torino approdano quindi, integrate, le immagini, già esposte a Roma e Milano, che presentano il più ampio spaccato fino ad oggi offerto al pubblico, della fotografia che Mulas ha dedicato al mondo dell’arte contemporanea, fulcro della sua ispirazione d’autore. La mostra di Torino offre tuttavia un nuovo capitolo per arricchire la conoscenza delle esperienze che Ugo Mulas ha compiuto nel corso della sua produttiva attività, costituito da una ricca selezione di scatti inediti a colori che l’artista ha realizzato contestualmente al bianco e nero e che, grazie alla collaborazione dell’Archivio Mulas, è stato possibile estrarre dal ricco corpo dei materiali conservati e che per la prima volta vengono resi noti al pubblico.
Il colore
Mai stampate direttamente dall’autore, le pellicole a colori presentate – circa 100 – saranno visibili grazie a uno speciale allestimento che prevede la successione di 30 teche retroilluminate che consentiranno di penetrare nell’archivio segreto dell’autore, come in una sorta di camera delle meraviglie.
La mostra si comporrà pertanto delle seguenti sezioni:
Le Biennali di Venezia
Una selezione di alcune delle più belle ed evocative immagini realizzate alla Biennale tra il 1954 e il 1972 illustra l’evoluzione del reportage di Ugo Mulas. Le fotografie della rassegna veneziana costituiscono anche l’asse temporale della mostra, presentando i vari movimenti artistici internazionali che si succedono nei vent’anni di attività del fotografo.
I ritratti
Questa sezione presenta una galleria dei vari protagonisti dell’arte italiana di quegli anni: non solo gli artisti, ma anche i critici, i galleristi e i collezionisti. Le immagini alternano diversi generi di ritratto, dal reportage (Adami, Manzoni, Giacometti) alla foto in studio (De Chirico, Morandi, Giulio Carlo Argan, Peggy Guggenheim) e ai ritratti d’artista. All’interno di questa sezione, alcuni “focus” approfondiscono e pongono in risalto il forte rapporto di amicizia e di collaborazione che Mulas ha intrattenuto con alcuni artisti italiani come Burri, Ceroli, Fontana, Manzù, Pascali, Schifano, Twombly.
Gli eventi
La sezione presenta una selezione di fotografie che segnano il passaggio dal reportage ad una indagine delle possibilità espressive e della fotografia, legata agli sviluppi dell’arte concettuale e del comportamento. Dalla mostra Sculture in città a Spoleto (1962) a Campo Urbano a Como (1969), da Vitalità del Negativo a Roma (1970) al decimo anniversario del Nouveau Réalisme (1970) a Milano.
New York: arte e persone 1964 – 1967
In questi anni l’attenzione degli artisti per i nuovi media e i fermenti della fotografia americana espressi da autori come Robert Frank e Lee Friedlander portano Mulas a superare definitivamente la tradizione del reportage classico. Le immagini della serie testimoniano i cambiamenti e la vitalità della scena artistica newyorchese: dagli happening alle serate negli atelier, in un’ottica sempre funzionale all’analisi della situazione artistica. L’incontro con artisti quali Duchamp, Warhol, Lichtenstein, Johns, Christo, Segal, Rosenquist, Dine, Oldenburg, Rauschenberg, Cage, favorisce in Mulas un’attenzione critica verso l’uso del medium fotografico che anticipa i lavori della fine degli anni Sessanta.
Nuove ricerche 1967 – 1969
La fine degli anni Sessanta è per Mulas il periodo dell’apertura alla sperimentazione sull’immagine fotografica nei vari contesti della comunicazione visiva. Nascono lavori che esplorano le diverse possibilità comunicative del mezzo: non più solo opere destinate alle riviste illustrate ma create per essere raccolte in libri e cataloghi (Campo Urbano, Vitalità del Negativo, Calder, Melotti ); in grandi provini (Johns, Newman, Noland); in cartelle fotografiche come quelle su Fontana, Duchamp e Montale; in scenografie teatrali (Wozzeck, Giro di Vite). I grandi formati, le proiezioni, le solarizzazioni, l’uso dell’iconografia del provino, sono tutti elementi che Mulas recupera dalla pratica quotidiana del suo fare, dalle sperimentazioni pop e new dada e da un’attenta rilettura della storia della fotografia, che diventa il riferimento centrale di fronte ai cambiamenti radicali apparsi alla fine del decennio. La crisi del reportage e la ricerca di nuove significazioni per un linguaggio ormai privo del suo primato d’informazione rispetto all’avanzare della televisione portano Mulas ad uno straordinario lavoro di riflessione critica sulla fotografia.
Le Verifiche
Le Verifiche (1970-1972), per la radicalità dell’analisi e lo spessore concettuale che le sostiene rappresentano le opere più significative dell’ultima stagione creativa dell’autore e il testamento più toccante della profondità cui è giunta l’esplorazione del mezzo, da parte del suo pensiero e del suo sguardo.
Nell’immagine: Alik Cavaliere osserva una scultura di David Smith.XXIX Esposizione Biennale Internazionale d’Arte, 1958. © estate Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati
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INFO
UGO MULAS. LA SCENA DELL’ARTE
A cura di Pier Giovanni Castagnoli, Lucia Matino, Anna Mattirolo
Torino, GAM Galleria d’Arte moderna
26 giugno 2008 – 5 ottobre 2008
Orari: tutti i giorni 10-18; chiuso il lunedì
Biglietti: 7,50 euro intero
6,00 euro ridotto
Gratuito il primo martedì del mese
Tel.011 4429518
www.gamtorino.it
Enti promotori: Ministero per i Beni e le Attività Culturali
DARC – Direzione generale
per l’architettura e l’arte contemporanee
Comune di Milano – Cultura
Comune di Torino – Fondazione Torino Musei
In collaborazione con Archivio Ugo Mulas
www.ugomulas.org
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La Verifica mancante. Ugo Mulas e il colore
Lo scopo cui una fotografia serve è sempre il fattore decisivo che determina la scelta tra il bianco e nero e il colore”[1]. Così scriveva Andreas Feininger negli anni in cui la fotografia a colori irrompeva, ancora goffa eppure ammaliante, sulle pagine dei rotocalchi come simbolo del nuovo e della modernità. E proseguiva in una disamina lapidaria quanto illuminante delle sue peculiarità. Il bianco e nero fa ragionare e il colore fa sognare, ricordava, riprendendo un dibattito sul significato delle forme e dei colori che aveva acceso già le avanguardie pittoriche nei primi del Novecento.
È intorno a questi nodi dello scopo e della scelta, dell’astrazione e della matericità, che dobbiamo anche noi ragionare di fronte a questo inedito Ugo Mulas a colori che questo libro ci propone.
Perché se il fotografo Mulas ha scelto indubbiamente il bianco nero come suo linguaggio d’elezione, fino a trascurare in quella fondamentale riflessione sul mezzo che sono state le sueVerifiche la dimensione del colore, la pratica di queste fotografie ci dice che questo linguaggio è stato usato. E non, come scriveva Giulio Carlo Argan, sedotto dal “genio” delle forme del suo bianco e nero, come “imbratto”, come “sovrastruttura”[2], né come deriva estetizzante, avulsa dall’insieme della sua produzione, sarebbe fare un torto a Mulas pensarlo. Ma come opzione, certo problematica, anche se non arbitraria, forse secondaria, ma non superflua, parte integrante di una concezione del fare fotografico che è fra le più lucide che il nostro paese abbia conosciuto.
E allora, dunque, quando Ugo Mulas sceglieva il colore?
La risposta – che può essere qui solo interlocutoria e aspetta un più completo studio delcorpus a colori dell’opera di Mulas – risiede tanto nella specificità del linguaggio e del mezzo, quanto nelle finalità della sua fotografia, nel suo modo di concepire e strutturare il racconto fotografico, infine anche nell’evoluzione che esso subisce nel tempo.
Nel dialogo che intreccia con Pietro Consagra e che dà vita al volume Fotografare l’Arte,Mulas distingue fra due forme di rappresentazione dell’evento che si trova a fotografare, la critica (o potremmo dire l’interpretazione) e la traduzione (o documentazione), a cui potremmo anche aggiungere la reinvenzione, opzione però mai usata, nella fotografia d’arte, da Mulas, che si riteneva storico e non romanziere, acuto ma umile interprete e non artista[3].
L’interpretazione, che in Mulas è analisi e restituzione attraverso il linguaggio della fotografia del nodo problematico dell’opera, l’autore l’affida principalmente al bianco e nero, per una predilezione per il linguaggio delle forme, per la capacità di simbolizzazione della composizione, per la facoltà di astrazione che appunto caratterizza il linguaggio del bianco e nero. Il colore si scontra in questo contesto con due limiti oggettivi: la sua eccessiva aderenza alla realtà e la sua impossibilità, almeno nella Milano in cui Mulas lavora, di essere rielaborato in camera oscura.
“Il significato pratico soffoca quello astratto” rilevava Kandinsky nel suo Lo spirituale nell’arte.
Il colore deconcentra, distrae, áncora alle sensazioni e al fenomenico, e quando non è usato come mera riproduzione del reale, parla in genere la lingua delle emozioni, una lingua che certo non è al centro del discorso fotografico di Mulas. Inoltre la diapositiva a colori è già in se stessa un prodotto finito al momento dello scatto, che non può essere oggetto di quel lungo lavoro di rilettura in camera oscura così fondamentale nell’opera di Mulas. Ce lo dice lui stesso: “Per quello che è il mio lavoro preferivo il nero per una semplice ragione, che non ho mai avuto i mezzi per organizzare una camera oscura del colore….”[4]. Ma poi aggiunge anche: “[con il colore] si potrebbero fare delle cose molto chic, monocrome, molto belle … utilizzare i colori più poveri possibile. Infondo è sempre un discorso che mi imbroglia, quello del colore, mi suggerisce delle esperienze di tipo più purista, più estetizzante, mentre invece col bianco e nero il discorso è più ideologico, mentale”[5].
Difficile negare, dunque, che le opere più rappresentative di Mulas rimangano, nell’insieme della sua produzione, quelle in bianco e nero.
Ma Mulas non concepisce il suo lavoro come una serie di foto singole, men che meno ad effetto, ma come un racconto, in cui la traduzione ha un’importanza analoga all’interpretazione, è ad essa complementare. E nella traduzione il colore riafferma il suo ruolo, fino talora a prendere il posto del bianco e nero come la migliore opzione, la scelta più adatta a rendere un dato significato o un dato soggetto. Quello che era prima un limite diventa una qualità.
Lo vediamo nei ritratti a colori realizzati fra gli anni ’50 e i primi ’60, probabilmente destinati primariamente a quei rotocalchi che, proprio in particolare nei servizi sull’arte, scoprivano in quegli anni il fascino del colore. Gino Severini con il suo cappello di carta di giornale in testa ritratto come un umile artigiano nel suo studio parigino, Consagra a Savona all’Italsider nel 1962: le sculture appese come panni al sole. Sono inquadrature che Mulas realizza pressoché identiche in bianco e nero e a colori e in cui il colore diventa un ulteriore elemento di racconto, un supplemento di descrizione.
Discostandosi dalla secchezza del bianco e nero, un colore quasi pastello, tradizionale quanto l’inquadratura classica in 6×6, evoca l’Italia dei centri urbani vecchi di secoli, degli studi d’artisti dai muri scrostati, dei cortili acciottolati…, un passato di storia in cui, ricordiamolo, anche Mulas si forma. Mostra quel rapporto di appartenenza e di filiazione che lega il quadro al suo ambiente, nella materia e nel colore.
Lo stesso si può dire, pur con i necessari distinguo dettati dallo scarto degli anni e dei luoghi, per le immagini che raccontano gli studi degli artisti newyorchesi e li ritraggono al lavoro, immagini che Mulas riteneva imprescindibile tassello di quell’indagine quasi etnografica sul fare artistico che sono state appunto le sue fotografie d’arte.
E la fotografia come documento, in cui anche il colore ha un suo valore antropologico cardine, ci parla appunto dello scarto del tempo e dello spazio attraverso tinte che si sono fatte più fredde, più sature, più incise, che evocano l’acrilico delle nuove pitture, i pavimenti grigi degli immensi loft, le luci dei flash elettronici con cui Mulas ha iniziato a fotografare, ma anche la diversa luce naturale. La modernità e l’alterità di una cultura americana insomma che Mulas descrive in fotografie che perdono talora la matericità dei ritratti d’ambiente per accentuare la loro dimensione di immagini in una società in cui tutto è sempre più immagine. Fino ad arrivare a quella fotografia come traccia, che vede negli oggetti e quindi nei loro colori i depositari del senso, che il lavoro concettuale di Mulas anticipa di quasi un decennio. Ecco allora le foto che ritraggono i muri degli studi degli artisti densi di fogli, appunti, disegni, fotografie, ecco i primi piani dei loro quadri, ma anche, ai confini con una nuova fotografia di still-life e di arredamento, le immagini degli interni delle case.
È l’elemento descrittivo (e talora, potremmo aggiungere, evocativo) che Mulas, in genere, accentua quando ricorre al colore, dando ad esso una rilevanza che è direttamente proporzionale a quella che ha nel soggetto ritratto, nell’evento che vuole interpretare.
“Per rendere l’atteggiamento di Fontana e di Newman era necessaria una operazione di tipo concettuale – ci dice ad esempio – mentre per gli artisti della action painting l’operazione del fare era determinante, era legata alla forma del quadro. Una fotografia di come Pollock faceva sgocciolare il colore sulla tela è già definitiva a livello documento, cioè nel documento si realizza pienamente l’operazione fotografica”[6]. La traduzione diventa insommainterpretazione.
Così se la lettura di un’opera come quella di Pietro Consagra, tutta dentro al significato dello spazio e delle forme, sarebbe difficilmente concepibile a colori, questi acquistano invece un’importanza a nostro avviso primaria, nel racconto del Pop americano, voce di una cultura di massa che vive nel colore, quello della pubblicità, delle insegne che tappezzano le città, presto anche della televisione (è già in parte a colori in quell’epoca negli Usa).
Mulas capisce che l’interpretazione deve essere qui in certa misura non simbolo ma reiterazione e costruisce la foto quasi come un nuovo quadro pop, in cui l’artista diventa parte dell’opera, frammento di un racconto che si risolve tutto sul piano orizzontale e poliassiale della cultura postmoderna. Come nella sequenza in cui Roy Lichtenstein diventa parte di un suo “fumetto”. O come anche in quei pochi scatti nella casa di Olitsky, in cui Mulas sembra avventurarsi per una volta in un suo gioco sulla rappresentazione, in un’allusione beffarda al rapporto di inclusione-esclusione dell’artista con la società borghese su cui ironizza. Con un colore che cessa di essere quello naturalistico di una fotografia di documentazione che fino ai primi anni ’60 si inserisce ancora nel tradizionale reportage, per diventare, in foto sempre più concentrate e meno esteriori, emblema, artefatto e immateriale, della nuova civiltà delle immagini, fatto di tinte “non più illuminate dalla luce”, ma “fabbricate dalla luce”[7], che sono poi quelle dei nuovi vestiti e materiali in nylon e plastica, delle nuove mode, non a caso scoperte per prime dalle fotografie di moda e di still-life.
Pubblicate sulle riviste del tempo, ma mai usate da Mulas nelle sue mostre e nei suoi libri, queste immagini escono dunque per la prima volta dopo circa quarant’anni dall’archivio dell’autore, mostrandosi nel nodo problematico del loro senso e della loro destinazione.
Questione aperta, in una riflessione sul mezzo che per il resto Mulas ha voluto compiuta, si offrono come un sguardo inedito e complementare. Quasi sconosciute, pongono il problema di quanto l’autore avrebbe voluto rimanessero tali. Certo confermano una volta di più la capacità di Mulas di muoversi su diversi registri espressivi, con una perizia tecnica e una pregnanza di significato che nasce dalla padronanza del mezzo e dalla piena consapevolezza delle sue specificità.
Scopriamo così un colore quasi interiore proprio in quelle foto su Calder che Argan vedeva come prerogativa esclusiva di un racconto in bianco e nero. Con la luce calda del sole che attraversa gli spazi dello studio e la penombra della casa animandoli di una vita naturale, e la dominante del blu che esprime una quiete che è insieme profondità spirituale. Un uso dei colori che interpreta l’opera di Calder e la sua persona, ma anche il sentimento che muove gli scatti che, come ci dice lo stesso Mulas, è quello di un ricordo intimo e affettuoso.
Vediamo il fotografo servirsi dei viraggi colorati in una restituzione dell’happening Colpo di Statodi Baj giocata sull’allusione ai tre colori della bandiera italiana che è già al confine con lareinvenzione, e poi lo troviamo ricorrere ad un colore quasi pittorico, in quei gruppi di famiglia che sono un modulo espressivo frequente della sua fotografia, in una resa cromatica forte che accentua gli equilibri della composizione e dischiude, fra l’altro, la strada ad un uso simbolico anche del colore.
E proprio questo uso simbolico, che esce dallo schema più sopra delineato di un bianco e nero d’interpretazione e di un colore di traduzione, è, a nostro avviso, significativamente alla base dei due scatti quasi identici in bianco e nero e a colori dell’opera di Pistoletto Nudo di schiena, in cui il rigore d’analisi, il discorso tutto cerebrale del bianco e nero lascia poi il posto alla fascinazione del colore, alla seduzione del corpo della donna, quasi un trompe l’oeil che sa accentuare il rimando alla classicità presente nell’opera e amplificare la riflessione sul quadro, sul guardare e sul rappresentare, sulla realtà e la finzione al centro del discorso dei due autori.
Mulas realizza il primo scatto in bianco e nero, poi toglie lo chassis e lo sostituisce con quello del colore e nella giustapposizione di questi due fotogrammi, nella profonda differenza di sensazioni che essi suscitano, ci offre, se non una verifica, senz’altro una chiara enunciazione, sul piano della pratica fotografica, delle differenze di potenzialità, di linguaggio e di significato fra bianco e nero e colore.
Uliano Lucas e Tatiana Agliani
[1] Andreas Feininger, Il libro della fotografia a colori, Garzanti, Milano, 1966, p. 25.
[2] “Sottile analista delle strutture fotografiche, Mulas non si è fatto incantare dal colore, ha lavorato in bianco e nero: sapeva che il colore in fotografia è ancora una sovrastruttura e che le fotografie a colori sono in realtà fotografie in bianco e nero a cui è sovrapposto il colore. Ma del monocromo Mulas era un genio, riusciva a liberare gamme di qualità così pure che, al confronto, il colore era un imbratto”. Questa l’esatta affermazione di Argan nella sua introduzione al catalogo della mostra di Ugo Mulas, Alexander Calder a Sachè e a Roxbury 1961-1965, tenutasi al Palazzo Gambalunga di Rimini nel 1982.
[3] Tanto che quando la distinzione fra i due campi inizia a sfumare Mulas si allontana dalla fotografia d’arte.
[4] In Arturo Carlo Quintavalle (a cura di), Ugo Mulas: Immagini e testi, catalogo della mostra al Palazzo della Pilotta, Csac, Parma, 1973, p. 25, citato in Giuliano Sergio, “Ugo Mulas 1953-1973: verifiche dell’arte”, Ugo Mulas, La scena dell’arte, Electa, Milano, 2007, p. 52.
[5] Ibidem.
[6] Pietro Consagra e Ugo Mulas, Fotografare l’Arte, Fratelli Fabbri Editori, Milano, 1973, p. 22.
[7] La distinzione è di Peppino Ortoleva, in Anni Settanta, Skira, Milano, 2007, p. 540.
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Intervista di Pier Giovanni Castagnoli a Uliano Lucas
Pier Giovanni Castagnoli:
Per la maggioranza del pubblico che visiterà, alla GAM di Torino, la mostra di Mulas e per chi sfoglierà questo volume, l’incontro con la fotografia a colori di Mulas costituirà una rivelazione del tutto inattesa e per molti probabilmente sconcertante; perché Mulas è stato ed è, nella conoscenza dei cultori e degli appassionati di fotografia, un autore che si è espresso – salvo rarissime concessioni, come quelle riservate alla moda e obbligate dalla committenza – in bianco e nero.
Come è nato, allora, l’incontro del fotografo col colore; come si è attuato l’ingente ricorso all’utilizzo di quello strumento che ha prodotto, negli anni, un catalogo tanto ampio, quanto scrupolosamente secretato dall’autore?
Uliano Lucas:
Dobbiamo sempre ricordarci che Ugo Mulas nasce come fotografo negli anni ’50, all’interno di quello che era un dibattito intorno alla fotografia neorealista o dei più neorealismi. Il colore era lontano dagli autori che appartenevano a questa storia per tantissimi motivi, non ultimo il fatto che la resa del colore era ancora modesta: sì, c’erano dei prodotti Agfa, c’era il Kodak, ma alla fine in Italia era dominante il Ferraniacolor, una pellicola di minor qualità. E poi proprio non c’era la cultura del colore, perché il nostro era un paese che era uscito da una guerra, provato e arretrato, era un paese in cui i rotocalchi – e Ugo allora lavorava per il giornalismo – utilizzavano sopratutto il bianco e nero. La grande svolta è il “miracolo economico”: porta a vedere il colore con altri occhi: il colore come vendita del prodotto, il colore come modernità. Ugo si fa le ossa, capisce l’importanza del colore e lo usa, lo usa soprattutto con la moda, perché la moda poteva essere fotografata a colori.
Esisteva allora una rivista che si chiamava Popular Photography che era la “bibbia” dei fotografi della generazione precedente alla mia, era proprio una “bibbia”, e usciva ogni anno un numero che era l’Annual, che conteneva molte notizie tecniche e un portfolio di grandi fotografi, tutto in bianco e nero. Negli anni ’54 – ’55 arrivarono però i primi Annual a colori. Ugo li comprava nell’edicola davanti al Giamaica. C’era questa edicola della zia di Franco Origoni che teneva sempre cinque o sei riviste che arrivavano dagli Stati Uniti. Generalmente c’era la corsa da parte dei fotografi. A me queste cose poi me le hanno raccontate, ma ho visto anche Ugo alla fine degli anni ’50, andarle a prendere. Ecco, dico questo per dire che la formazione sul colore dei fotografi italiani avvenne soprattutto attraverso lo sguardo su Life e su questo Annual e sul libro di Feininger. E anche sul cinema, da Senso di Visconti al Deserto rosso di Antonioni.
Castagnoli:
Ritieni che questo interesse per il colore, che ha dato vita ad una produzione tanto ampia e sistematica, come quella che è affiorata attraverso lo scavo condotto per la preparazione di questa mostra, sia sostanzialmente ascrivibile ad una inclinazione dell’artista per la sperimentazione espressiva e a ragioni di ordine linguistico o sia piuttosto da collocare in un ambito di “investimenti” professionali, tesi alla costituzione di un patrimonio di immagini disponibili per un diverso impiego, rispetto a quello riservato, o da riservare, alla fotografia in bianco e nero?
Lucas:
Ugo è un anticipatore ed è uno che sicuramente vede nel futuro il colore. Ma è anche uno che si forma in camera oscura e arriva a un perfezionismo della stampa. C’è l’Ugo che si inventa gli sviluppi, scopre la chimica, la grana fine dell’Ornano e il Rodinal dell’Agfa. C’è l’Ugo che per anni e anni si stampa le fotografie e poi insegna a dei giovani stampatori come stamparle. E questa conoscenza dell’arte della stampa e consapevolezza della sua importanza sarà un lascito incredibile per le nuove generazioni di fotografi. Mentre Mulas sa che non può controllare il processo del colore perché, scattata l’immagine, viene consegnata ad un laboratorio e tutto finisce lì. E questo è sicuramente un grosso limite che lo allontana dall’uso del colore come sperimentazione. Ma c’è anche, come tu dicevi, un Ugo che capisce che il colore è il nuovo linguaggio. E all’interno di questo nuovo linguaggio ad un certo momento c’è l’approfondimento, c’è l’intelligenza, c’è il tentare di impadronirsene, soprattutto da parte di uno che ama l’arte, ama i colori. È anche, a mio avviso, un Ugo che ogni giorno deve fare i conti comunque con un mercato. Ci si dimentica spesso che è un fotografo che riceve delle committenze e deve rispondere ad esse. E su questo mercato, ad un certo momento, Ugo capisce che è un bene produrre in bianco e nero i reportage, ma è anche un bene fare del colore per qualsiasi – uso volutamente questo termine – “evenienza”.
Castagnoli:
Mi sto chiedendo, rispetto al risalto che hai dato all’attenzione posta da Ugo Mulas alla laboratorialità della camera oscura: a quel concorso – intendo dire – di scelte e di azioni, indissolubilmente implicate nel risultato della creazione fotografica, che maturano nell’alchimia dei passaggi da sviluppo a stampa; mi chiedo cosa possa avere indotto l’artista, ad un certo momento del suo cammino, a tralasciare, come ci è testimoniato dalle confessioni di quanti lo hanno conosciuto da vicino, quell’esercizio tanto intimo e profondo di sensibilità. Perché Mulas decide, insomma, un certo giorno di far stampare ad altri?
Lucas:
Beh, Ugo ha comunque il controllo della camera oscura perché nello studio c’è la camera oscura con i suoi due o tre stampatori che lui fa crescere. Io mi ricordo Eugenio Cassina, Carlo Orsi e Parolini. Hai proprio una “bottega” di allievi che rimane con lui per anni e anni e che ormai sa esattamente le sfumature, il gusto, i neri e i grigi che vuole Ugo.
Castagnoli:
Non vi è dunque distinzione, né separazione, nel controllo delle procedure di stampa, tra un prima e un dopo. Non vi è alcuna diversità, sul piano dei risultati, tra quanto Mulas realizza personalmente e ciò che consegna all’esecuzione condotta da altri.
Lucas:
No. Teniamo presente che il primo Ugo che stampa è un cattivo stampatore perché Ugo, come tutta quella generazione, è un autodidatta che scopre la tecnica della fotografia attraverso i manuali Hoepli. Ugo diceva “Quanti anni buttati via”, persi per impadronirsi da solo, senza aiuti del mezzo. Per cui è uno stampatore che via via diventa raffinato, aiutato anche dal fatto che intanto sul mercato arrivano nuove tecnologie, arrivano nuovi tipi di carta, delle pellicole sempre più sensibili, arrivano gli ultimi flash, le Nikon e i grandangolari. Cioè: c’è sempre da vedere, di fianco a una storia della fotografia, anche una storia tecnica della fotografia, perché è la tecnica che ti dà delle nuove possibilità.
Perché, poi, Ugo non entra più in camera oscura da artigiano, con una quotidianità? Beh, io credo che sia ormai la committenza che preme, e anche la sua curiosità ad affrettare il suo passo. Ugo, se uno fa il calcolo degli anni che ha vissuto e degli anni della sua produzione, è incredibile: questo suo spaziare da una situazione ad un’altra, sempre con capacità e intelligenza. E poi è richiesto. È richiesto ed è uno che ci mette il suo tempo per fare i reportage. Questo non gli permette più di controllare anche quella fase. Cioè sovrintende soltanto. Ma mi sembra più che giusto, tutti i fotografi poi, alla fine, sono arrivati a questo punto, non si sfugge. Però quello che usciva dalla camera oscura era sotto un controllo serio e scrupoloso del suo occhio.
Castagnoli:
Mi è chiaro. E ancor più chiaro, grazie alle tue parole, mi risulta essere, sul piano processuale e della sua regia, la differenza tra il bianco e nero e il colore; dato che, per il secondo, la “ distanza” dell’autore dai procedimenti di stampa è imposta dalla natura tecnica del mezzo che la realizza e che lo costringe, per quanto avvertita e profonda possa essere la sua capacità di previsione del risultato e nonostante la padronanza del mestiere, ad agire in una condizione di “attesa” e di relativa “sottomissione” al condizionamento del processo strumentale. Penso che da tale condizione, oltre che, ovviamente, dalle più evidenti distinzioni fenomeniche, discenda uno dei fattori che determinano la diversità tra bianco e nero e colore e che costruiscono, attraverso il confronto dei due codici, uno dei risultati più affascinanti e sorprendenti di questa rassegna. Soprattutto là, com’è il caso delle fotografie scattate negli studi degli artisti di New York, dove la variazione iconografica tra bianco e nero e colore è quasi insignificante; mentre profondamente diversa è la sintassi plastica e spaziale. Si potrà scegliere, a piacimento, una tra le molte fotografie dove è soltanto lo scarto minimo, quasi impercettibile, di una movenza della figura ritratta a segnare la differenza tra bianco e nero e colore e a denunciare, nella rapidissima successione dell’esecuzione degli scatti, il ricorso all’utilizzo contemporaneo di due macchine fotografiche in parallelo. Per contro il colore, tramite la compressione della profondità dei campi spaziali e l’attenuazione dei valori chiaroscurali e plastici, si avvicina, ancora prima che attraverso l’evidenza dei propri attributi cromatici, ai modelli della pittura, fino a istituire, nelle fotografie realizzate negli studi di New York, una sorta di relazione simpatetica con le vaste campiture di superficie della pittura statunitense che Mulas andava ritraendo e, infine, una sorta di compensazione o soddisfazione di quel vorace desiderio di possesso e di appagamento visivo che l’autore viveva e che, forse, la fotografia in bianco e nero non riusciva, da sola, interamente a placare.
Ma probabilmente, questi che vado proponendo sono avvitamenti un po’ troppo cerebrali.
Lucas:
No, mi piace molto questa tua riflessione.
Teniamo presente che ci sono delle differenze, delle evoluzioni. Se tu vedi le fotografie di Ugo Mulas pubblicate sull’Illustrazione italiana fra il ’63 e il ’64 ti accorgi che Ugo usa il colore perché glielo avevano chiesto, ma lo usa senza approfondimenti. Ha il senso del colore, ma dentro non c’è una ricerca. Guardando invece le fotografie di Roberto Crippa, di quegli stessi anni, il pittore fotografato nel cortile di via Rossini, ti accorgi che c’è un uso che è straordinario, è materico. Lì vedi che lui cerca altre strade del colore e inizia un certo tipo di ricerca – e questo anche perché, a mio avviso, lavora e scatta per il pittore. E lo stesso vale per la Pop Art. Lì non ha problemi di giornale, rivista, libro o gallerista; lì è lui e – questa è la mia idea – inizia a lavorare e a ragionare sul colore come linguaggio della modernità.
Ugo ci affida un lascito di migliaia di fotocolor di vari formati che non ha mai stampato. Se li è tenuti lì, li ha scattati come un “tesoretto” da tenere per un futuro, una base per ragionare intorno al colore. E questo mi pone un’altra domanda: perché non c’è una verifica sul colore? Questo è forse il punto. Questo suo straordinario percorso di analisi e riflessione, costituito dalle Verifiche, non entra nel merito del colore. Credo che avvenga – è una mia ipotesi – perché lui si forma comunque sul bianco e nero, si forma su quella che è una fotografia di impianto e di storia ottocentesca, positivista, figlia della prima società industriale e di tutto quello che è il dibattito intorno alla fotografia della prima metà del Novecento, delle avanguardie artistiche. Il colore per lui è ancora qualcosa di sfuggente: ci lavora, ci vive, lo ama anche, perché ha una formazione pittorica, però gli è ancora in certa misura lontano. Tuttavia credo che tu abbia ragione a proposito di queste fotografie newyorkesi, Ugo fa il bianco e nero, ma in contemporanea si cimenta anche in una nuova, diversa, rappresentazione basata appunto sul colore.
Castagnoli:
Penso che le Verifiche non tocchino la questione del colore, sebbene Mulas si sia con il colore assiduamente misurato, per un motivo molto prossimo a quello che ha sconsigliato Mulas di produrre e distribuire stampe a colori delle proprie fotografie: per quella ragione, intendo dire, che tu hai affacciato quando hai affermato che per il colore serviva ancora tempo. E poiché le Verifiche, oltre alla densità di significato concettuale che condensano, concentrano anche, in uno straordinario autoritratto, il senso del rapporto dell’autore con l’esperienza, con il tempo, con la vita; esse non potevano che mostrare, insieme al volto dell’autore, quello della sua opera conclusa: il volto, appunto, di una fotografia in bianco e nero.
Lucas:
È vero: c’è un ragionare intorno al mezzo ma senza prendere in considerazione il colore. Questo è un motivo di curiosità e di discussione. Io lo capisco perfettamente, l’hai spiegato. Il problema è come comportarsi oggi, in quanto Ugo non ha mai lasciato indicazioni sul colore. Se su tutto il suo lavoro in bianco e nero hai una serie di punti fermi, sul colore non hai niente. Il colore è lasciato in archivio in attesa che venga il suo tempo. L’unico intervento sul colore che si conosce, o che io conosco, di Ugo, al di là delle pubblicazioni sui giornali, è il trittico sull’happening di Baj a Como in cui le fotografie vengono colorate in bianco, rosso e verde, in funzione di un discorso politico. Non hai altro. Guardando però il colore di Ugo, a distanza di tanti anni, in un’epoca che ha aperto intorno alla fotografia nuovi discorsi e nuovi percorsi, devo dire che lui aveva una capacità di ragionare intorno al colore non indifferente. Nel senso che non poteva reinventare in camera oscura l’immagine, ma era talmente preciso che sapeva esattamente calcolare e immaginare la resa cromatica della diapositiva. Anche se non la sviluppava lui, anche se usava la tecnica dei tre scatti, per non mancare l’esposizione corretta – mezzo diaframma in più, mezzo in meno – a un certo punto ti accorgi che aveva proprio un’idea ben precisa dell’insieme dei colori, della luce, del gusto e della particolarità di certi tagli e di certi miscellanee. Il che ti riporta a questo suo amore verso l’arte e a questo suo continuo sfogliare libri e cataloghi e viverli.