IL FAVOLOSO MONDO A FUMETTI
DI ROY
COMICS E POP, MODERN E POSTMODERN
dal 26 gennaio al 20 maggio 2010, Triennale – Milano
Roy Lichtenstein torna ad esporre in Europa con una grande mostra antologica, a cura di Gianni Mercurio, alla Triennale di Milano dal 26 gennaio al 20 maggio 2010. La mostra, nel mese di luglio, sarà spostata al Ludwig Museum di Colonia, dove rimarrà aperta al pubblico fino al 3 ottobre 2010.
L’esposizione include oltre cento tele di grande formato, oltre a numerosi disegni, collages e sculture provenienti da prestigiose collezioni pubbliche e private internazionali, tra le quali il Ludwig Museum di Colonia, il Ludwig Forum di Aachen, il Louisiana Museum di Copenaghen, il Whitney Museum e il Gugghenheim Museum di New York, il Moderner Kunst Museum di Vienna, the Broad Art Foundation di Los Angeles.
Il curatore, Gianni Mercurio, già noto per aver tra l’altro firmato alla Triennale di Milano grandi mostre antologiche dedicate ad Andy Warhol, Keith Haring, Jean-Michel Basquiat, ha ideato questa retrospettiva su Lichtenstein che per la prima volta fa il punto sulle opere che l’artista pop ha realizzato appropriandosi delle immagini provenienti dalla storia dell’arte moderna.
È la prima volta che la mostra esplora in modo organico e completo questo significativo aspetto del lavoro di Lichtenstein, che mette in luce il debito che il Postmoderno ha nei confronti della sua opera.
“In quasi mezzo secolo di carriera ho dipinto fumetti e puntini per soli due anni. Possibile che nessuno si sia mai accorto che ho fatto altro?”
(Roy Lichtenstein)
La mostra, suddivisa in sezioni tematiche, parte dai lavori degli anni ’50, poco conosciuti e molti di essi esposti per la prima volta, nei quali l’artista rivisitava iconografie medievali e reinterpretava dipinti di artisti americani come William Ranney ed opere come Washington Crossing The Delaware del pittore Emanuel Gottlieb Leutze, (c. 1851), ricalcando gli stilemi espressivi dell’astrattismo europeo e, in particolare, gli universi di Paul Klee e di Picasso.
In questa fase della sua produzione l’artista mescolava il modernismo proveniente dall’Europa con i vernacoli della storia e della cultura americana: gli indiani e il Far West, le scene di vita dei pionieri alla conquista delle terre, gli eroi e i cow-boy.
Nel periodo eroico della Pop Art, i primissimi anni sessanta, Lichtenstein definisce il proprio stile e linguaggio pittorico, e inizia una rivisitazione di opere celebri di artisti del passato più o meno recente.
La rielaborazione di opere di Picasso, Matisse, Monet, Cézanne, Léger, Marc, Mondrian, Dalì, Carrà, è concepita a partire dalle pubblicazioni a scopo divulgativo: un modo per riportare (ridurre) la dimensione ineffabile della pittura a quella di “oggetto stampato” e commercializzato.
Le sezioni della mostra comprendono le opere ispirate al Cubismo, all’Espressionismo, al Futurismo, al Modernismo degli anni ’30, all’astrazione minimalista, all’Action Painting, e ai generi del paesaggio e della natura morta.
MEDITATIONS ON ART
___________________________________
_______________________________________________
Biografia dell’artista (Wikipedia)
Biografia dell’artista (Lichtenstein Foundation)
MODERN POSTMODERN. ROY LICHTENSTEIN
di Gianni Mercurio (Curatore della mostra)
Nella seconda metà degli anni cinquanta il panorama dell’arte internazionale era dominata dall’Espressionismo astratto, eppure già nel 1958, con Jasper Johns e Robert Rauschemberg che si affacciavano sulla scena americana, il clima culturale stava per cambiare radicalmente. In quell’anno Bersaglio con quattro facce di Johns – l’opera è del 1955 – venne riprodotto sulla copertina di Art News. Si trattava di un segno inequivocabile del fatto che la pittura non era più solo gestuale o, più genericamente, aniconica.
Ma non sono stati Johns e Rauschenberg a determinare la svolta. A loro spetta il merito di aver fatto da ponte tra due epoche così diverse che, ancora oggi, è difficile pensare che il passaggio dall’una all’altra sia avvenuto nell’arco di poco meno di vent’anni. La partita che si è giocata tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta è stata una partita epocale, e non solo per la rivoluzione avviata dalla Pop art. Basta pensare a com’è cambiato l’Occidente attorno al 1968. È in quegli anni segnati dalle contestazioni giovanili che il Novecento ha chiuso la sua parabola e che siamo entrati nel nuovo secolo. Del resto, quello che comunemente chiamiamo Novecento non è iniziato allo scoccare dell’anno 1900, ma attorno al 1870, con l’avvento della Seconda rivoluzione industriale e, in arte, con gli impressionisti, Manet in primo luogo.
La coscienza di quale portata abbia avuto la svolta che si è registrata negli anni sessanta serpeggia già da qualche tempo. Nel 1991, un quarto di secolo più tardi dall’avvento della Pop Art, Robert Rosemblum è arrivato ad affermare che il modo in cui all’epoca Lichtenstein combinava le immagini di cui si appropriava, le “attitudini retrospettive” di cui si alimentava la sua opera, possono essere definite con il termine di postmodernismo.(NOTA 1) Rosemblum diceva il vero: nel 1958 nessuno nel mondo dell’arte avrebbe potuto prevedere che alcuni giovani artisti esordienti, tra i quali Lichtestein, Warhol, Oldenburg, Dine, Rosenquist, Wesselmann, Segal (e molti altri, della maggior parte dei quali si è persa memoria) stessero facendo da apripista a quello che una ventina d’anni dopo, tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, sarebbe stato definito Postmoderno. Nel giro di due decenni sul versante della filosofia, dell’architettura, dell’arte visiva, della letteratura, della poesia, del cinema, del teatro, della musica un vero e proprio sovvertimento culturale avrebbe radicalmente mutato i principi base sui quali si fondava il modernismo. Sebbene questi sviluppi non fossero prevedibili, i fatti dimostrano che in qualche misura le potenzialità del fenomeno pop erano state avvertite. Diversamente non si spiegherebbe l’insofferenza manifestata nei confronti dell’arte Pop, anche con attacchi verbali violenti, dai sostenitori dell’Espressionismo astratto, considerato in quel momento come il vero e unico volto contemporaneo del modernismo.
Nei primi anni ’50, quando Jackson Pollock incarnava il sogno di un’arte americana che aveva estinto i suoi debiti con quella europea, Roy Lichtenstein, da poco tornato nell’Ohio, dove anni prima aveva compiuto gli studi universitari, dipingeva un insolito repertorio figurativo: la sua arte di allora rivisitava iconografie medievali tratte da fonti celebri come l’arazzo di Bayeux (imponente decorazione ricamata per il palazzo vescovile a Canterbury nell’XI secolo) e reinterpretava dipinti come Emigrant Train di William Ranney (1813–57) o Washington Crossing the Delaware di Emanuel Leutze (c. 1851). In questa fase della sua produzione Lichtenstein mescolava i linguaggi modernisti provenienti dall’Europa con i vernacoli della storia e della cultura americana: gli indiani e il Far West, le scene di vita dei pionieri alla conquista delle terre, gli eroi e i cow-boy. Nel dicembre del 1952 Lichtenstein aveva avuto la sua prima personale alla John Heller Gallery di New York. Alle pareti, oltre diversi autoritratti in stile cavalleresco che lo ritraevano nei panni di eroe leggendario, sedici dipinti ispirati al tema della frontiera si richiamavano a opere ottocentesche di genere western e ad autori come Frederic Remington e Charles Willson Peale. Questi soggetti americani, trasposti in uno stile pittorico europeo – prevalentemente cubista – che rendeva i dipinti in mostra volutamente paradossali, prefiguravano una strada inedita da sperimentare. Appropriarsi di una pittura “storica” e affrancarla dalla partecipazione emotiva ha rappresentato nei decenni successivi una delle caratteristiche più pregnanti della poetica di Lichtenstein. Questo tipo di repertorio avrebbe trovato declinazione anche nella scultura, mediante l’utilizzo di materiali come il legno o il metallo. Su questo immaginario che guardava alla storia dell’arte piuttosto che alla Storia e alla natura, Lichtenstein impresse uno stile vagamente fumettistico e ironico.
Nel riprendere un’immagine creata da altri e nel farla propria, egli ha introdotto in arte – Andy Warhol si sarebbe mosso nella stessa direzione qualche anno dopo, con i primi lavori pop che seguirono la sua attività di illustratore – il concetto di appropriazione. Un concetto la cui implicazione pratica consiste nel presentare come propria una copia di una rappresentazione già esistente. Quanti vedevano nell’atelier dell’artista il luogo privilegiato dove prende forma l’invenzione del nuovo, o dell’innovativo – meglio ancora se si tratta di qualcosa di scioccante – percepivano come un’eresia l’atto di riproporre un’immagine già data (e perlopiù nota). Il concetto di copia, che riconduce a Lichtenstein e costituisce uno dei punti cardine sui quali in seguito si è basata la cultura postmodernista, non rappresentava tuttavia per Lichtenstein (né per Warhol) un tentativo di affrancarsi dal modernismo. “Quando ho dipinto le mie prime tele pop, quelle con una sola immagine centrale, avevo il sentimento di volermi sbarazzare del cubismo,” ha detto Lichtenstein in proposito alcuni anni più tardi,”[….] dal momento che ne sono fuggito, mi sono reso conto che non era così importante liberarsene [….] così il cubismo ha contaminato la pittura pop, [….] non soltanto nelle mie versioni vernacolari dei lavori di Picasso e Mondrian. Le tele dipinte con i fumetti hanno anch’esse qualcosa di cubista.” (NOTA 2)
La fede di Lichtenstein nelle virtù dell’estetica modernista era l’indizio di un importante legame tra la Pop art e l’arte degli espressionisti astratti. Lo era al punto che, tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta, Lichtenstein si misurava con una gestualità di tipo espressionista. L’innovazione stava soprattutto nei soggetti: Donald Duck, Mickey Mouse, Bugs Bunny. Nell’adattarne la fisionomia alle modulazioni tipiche della pennellata astratta, ora spessa e grossolana, ora assottigliata e calligrafica, Lichtenstein dava il segnale incisivo di un cambiamento di rotta, determinante non solo per il suo percorso poetico, ma per l’intera scena dell’arte. I più popolari personaggi appartenenti al mondo dei cartoon raffigurati in termini astrattisti-gestuali costituivano un bel corto circuito visivo. Ma era presto perché qualcuno se ne accorgesse e, soprattutto, in un’ottica modernista non era il soggetto a determinare la qualità intrinseca dell’opera ma il modo in cui questo veniva rappresentato sulla tela.
Parlando di questi soggetti Lichtenstein ha affermato di essere stato influenzato dalle Women di de Kooning. Nonostante ciò i suoi personaggi segnavano una distanza ironica – e una sottesa vena di ribellione – dall’erotismo primitivo e tormentato delle donne di de Kooning. Ecco un altro punto chiave per comprendere la traiettoria estetica di Lichtenstein: la capacità di affrancarsi dall’erotismo insito nella pennellata degli espressionisti astratti costituirà il background per nuovi orientamenti artistici volti a convertire il “sacro” in luogo-comune. Attraverso una riduzione stilistica prima ancora che tematica, Lichtenstein ha liberato la figura dell’artista dalla sacralità e dalla retorica che facevano di lui una sorta di Creatore (da qui l’uso ricorrente del termine “creare” per indicare la realizzazione di un’opera). In altre parole, pur mantenendo fede nelle qualità espressive dei materiali, a quel tempo Lichtenstein – come del resto Rauschenberg, appena tornato dai suoi viaggi in Italia, in Francia e Spagna – aveva già abbandonato ogni interpretazione dogmatica del valore dell’arte. (…)
Il Post-modernismo, come è stato più volte fatto notare, affonda le sue prime radici nell’era del Tardo-capitalismo, quando la tecnologia viene assimilata dalla società allo stesso modo che la società viene assimilata dalla tecnologia (NOTA 11). Anzi, l’era postmoderna, nell’analisi del politologo e critico letterario Fredric Jameson, appare innanzi tutto segnata dall’indebolimento del confine tra cultura alta e cultura di massa o commerciale. Per Jameson il post-modernismo rappresenta la “logica culturale del tardo capitalismo”, che trova le sue ragioni innate nel momento in cui il culto per la produzione meccanica si avvia a divenire il culto per la ri-produzione meccanica, con la conseguente perdita di valore dell’originale. Questo concetto avrà un significativo riflesso nell’opera dei minimalisti che puntavano a conferire alle loro opere una natura oggettuale e ripetitiva. Sia il minimalismo che la Pop art prendevano le distanze dalla dimensione soggettiva ed emozionale dell’atto creativo, dalla sua carica sentimentale. In un certo senso il tipo di sensibilità che conduce Lichtenstein alla raffigurazione dell’oggetto secondo le sue linee bidimensionali è la stessa che spinge Judd verso la purezza delle soluzioni tridimensionali. Gli influssi del design moderno, in quegli anni, avevano avuto un evidente effetto sulla pittura di Lichtenstein come sulle costruzioni spaziali di Judd in modo molto più similare di quanto Judd non avesse colto ai tempi della sua prima recensione, nel 1963, alle opere di Lichtenstein da Leo Castelli. (NOTA 12). Senonché i punti regolari e ripetuti, le linee diagonali uguali a se stesse o il colore piatto con cui Lichtenstein struttura le proprie composizioni si propongono di presentare in modo astratto soggetti figurativi. Quella di Lichtenstein è, cioè, una riflessione sulla natura astratta della realtà. Soprattutto, come è evidente, Lichtenstein si inserisce in una tradizione consolidata della storia dell’arte, quella della ripresa di soggetti appartenenti ad altri artisti: dai cubisti agli espressionisti tedeschi, dagli impressionisti ai surrealisti. In questa prospettiva, e stando alle principali categorie estetiche individuate da Jameson per descrivere l’età postmoderna – scomparsa della profondità, scomparsa della storicità, scomparsa dello stile individuale – Lichtenstein potrebbe essere considerato un interprete di quel processo di trasformazione della cultura che ha portato al postmodernismo; un post-moderno ante litteram.
Le riappropriazioni di soggetti appartenenti ad opere che hanno fatto la storia del modernismo, in Lichtenstein passa per le riproduzioni stampate sui libri d’arte, un modo per ricondurre, già in fase di approccio, quell’aspetto ineffabile dell’arte, a una forma bidimensionale e tipografica. D’altra parte – e questo è un punto focale per Lichtenstein – la maggior parte delle persone conosce l’arte attraverso la sua riproduzione sui libri.
Il gusto per la citazione dell’opera non è un tratto comune alla Pop art, quanto piuttosto una caratteristica peculiare della poetica di Lichtenstein. Egli è stato il primo a indirizzare la propria tensione creativa e intellettuale sulla possibilità di trasformare una copia in un originale; ha insistito sulla questione fino a farne l’elemento fondante della propria estetica. Per gli altri artisti della sua generazione, diversamente, la citazione di opere altrui era perlopiù un fatto occasionale, limitato a episodi circoscritti. Sin dai primi anni sessanta, quando Warhol e Wesselmann, al pari di Rauschenberg o Rivers, davano prova di considerare la storia dell’arte come una sorta di serbatoio di immagini “belle e pronte”, da utilizzare all’occorrenza, inserite all’interno di un contesto compositivo, Lichtenstein ha mostrato di avere un approccio all’immagine di tipo minimalista: l’ha isolata e non l’ha messa in relazione con nient’altro che se stessa. Rauschenberg ha utilizzato la citazione al pari di una pennellata, con la stessa valenza formale di una massa di colore; Wesselmann l’ha applicata a un complesso compositivo che ricalcava i tratti caratteristici della natura morta; Warhol l’ha usata come un timbro, una cifra ripetuta in serie, limitandosi fino a quel momento a citare Monna Lisa di Leonardo, la stessa effigie alla quale Duchamp, con atto dissacratorio, aveva disegnato i baffi; Rivers si è appropriato di immagini di pittori classici facendole proprie sia sua sul piano dello stile sia sul piano dei contenuti. (…)
Se per un verso Lichtenstein è un anticipatore del postmodernismo, per l’altro la sua architettura poetica e visiva è coerente con la concezione modernista. Del resto la postmodernità come esperienza storica che investe all’incirca l’ultimo mezzo secolo è indissolubilmente legata alla modernità e al suo significato. Lichtenstein rende evidente quanto complesse siano le dinamiche culturali del nostro tempo. La sua opera dimostra prima di altre che, se è vero che i media hanno cambiato il mondo, è solo svelandone i meccanismi che si può restituire l’arte al mondo.
NOTE
1. Robert Rosenblum, “Roy Lichtenstein, Past, Present, Future” in Artstudio, Printemps, Paris 1991: “Già in quegli anni (negli anni sessanta ), Roy Lichtenstein annunciava con la sua arte che stavamo vivendo un’epoca che era venuta alla luce dopo la fine dell’era modernista, un tempo in cui la storia eroica dell’evoluzione dell’arte moderna da cezanne e monet a picasso sembrava un capitolo chiuso… La visione post–modernista di Lichtenstein della storia dell’arte moderna si sarebbe espansa in ogni direzione e in ogni campo, fino a quando egli non avesse imbalsamati tutti i canoni degli –ismi e tutti i movimenti canonici che figurano nei testi di storia dell’arte – cubismo futurismo, blue rider, purismo, espressionismo, de stijl, surrealismo. Attraverso i decenni, egli ha effettivamente montato un completo museo di arte moderna, in cui sono poste tutte le questioni su ironia, appropriazione, riproduzione meccanica, o semplice nostalgia per un passato eroico , sulle quali si ritorna continuamente allorché si discute del lavoro di generazioni di artisti più giovani come Mike Bidlo, Philip Taaffe, Sherrie Levine.
Sotto molti altri aspetti ancora, Roy Lichtenstein sembra ora un profeta.”
“For already in that decade, Lichtenstein announced in his art that we were living in an age that had been born after the expiration of the Modernist epoch, an age in which the eroic story of the evolution of modern art from Cézanne and Monet to Picasso and Mondrian at òast seemed a finished charter….Lichtenstein’s Post-Modernist view of the history of modern art kept expanding in every direction, until all the canonic isms and movements of the art history text books – Cubism, Futurism, Blue Rider, Purism, Expressionism, De Stijl, Surrealism – had been embalmed.Over the decades, in fact, he created an entire museum of modern art that raised all of those questions of irony, appropriation, mechanical reproduction, and simple nostalgia for a heroic past that are raised again and again in discussine the work of artists of a much younger generation such as Mike Bidlo, Philip Taaffe, Sherrie Levine. In many other ways, too, In many other ways too, Lichtenstein seems a prophet.”
2. Roy Lichtenstein, in Carter Ratcliff, “Donald Duck et Picasso”, in Art Presse, ottobre, Parigi 1989
11. FONTE
12. Una recensione di Donald Judd apparsa su Arts Magazine nel novembre del 1963 tempera lo scetticismo critico con cui lo stesso Judd aveva stigmatizzato i grandi quadri-fumetto di Lichtenstein pochi mesi prima, in occasione di una delle mostre d’esordio da Leo Castelli. Judd stavolta indica l’abilità di Lichtenstein nella composizione, che definisce “tradizionale” e piuttosto esperta. In un suo saggio dal titolo “Specific Objects” (pubblicato su Arts Yearbook n. 8, 1965) inoltre Judd osserva che i fumetti di Lichtenstein, in quanto “rappresentazione di una rappresentazione”, suggeriscono una metalinguistica nella quale le indicazioni di realtà proprie della parola (come dall’immagine codificata), non costituiscono la base del pensiero, a essere preso in esame è piuttosto l’uso che della parola stessa viene fatto, la sua qualità idiomatica.
INFORMAZIONI UTILI
Titolo: Roy Lichtenstein. Meditations on Art
Sede: La Triennale di Milano. Viale Alemagna, 6 – Milano
Periodo: 26 gennaio 2010 – 30 maggio 2010
Orari: Tutti i giorni dalle 10.30 alle 20.30, lunedì chiuso – giovedì 10.30/23.00
Biglietto: Intero – 9,00 Euro – Ridotto: 6.50 – 5.50 Euro
Per informazioni: tel. 02.724341
Catalogo: Skira