MART CHIAMA MAN.
CAPOLAVORI DEL ‘900 ITALIANO,
DALL’AVANGUARDIA AL RITORNO ALL’ORDINE
Giorgio de Chirico, La commedia e la tragedia, 1926 , Olio su tela, cm 146 x 114, Mart, VAF-Stiftung
© MART, Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto
5 marzo – 6 giugno 2010, Nuoro, Museo d’Arte della Provincia di Nuoro
In questo periodo nasce il rapporto che l’arte che ancora ci riguarda e ci interessa ha, ad esempio, con i grandi temi come realismo e astrazione, aderenza a un piano formale ancora storicamente presente e disarticolazione dell’idea artistica in transito verso il concetto puro. Dire e suggerire. Realtà e simbolo. Pittura e anti-pittura.
Il tramonto degli Imperi balcanici e coloniali getta l’uomo all’alba del ‘900 in una “libertà maldigerita”, in un possibilismo di cui non sa che fare, privo del sostegno della Storia e intriso delle insinuazioni e dubbi che Freud cominciava a far emergere dall’illusoria rappresentazione del mondo fornita dall’inconscio e Nietzsche indicava attraverso un comportamento dionisiaco (esemplarmente incarnato dalla figura di Picasso) che trascenderà le costrizioni del pensiero razionalistico. In tutta Europa (ancora per poco il centro del mondo per ogni espressione artistica), dalla Lisbona di Pessoa alla Trieste di Svevo, si muove l’inquietudine del presente, dilaga la perdita dell’identità nazionale che sino ad allora rinsaldava gli elementi costitutivi della società borghese oltre che dell’aristocrazia. Si respira un sentore di disfacimento, crepuscolo delle idee positivistiche e desiderio di evoluzione anticipato dall’arte, dalla letteratura e dalla musica che sfocerà nella catastrofe della I guerra mondiale.
La costruzione del nuovo ordine culturale, pur faticosa, si delinea in fretta attraverso i grandi movimenti di Espressionismo, Costruttivismo e Futurismo, con una valenza estetica (la distruzione del piano prospettico di lavoro e l’uso rinnovato e forzato del colore sono le prime evidenti caratteristiche formali di rottura) e politica (per la prima volta l’arte si contrappone all’ordine socio-politico e si identifica dichiaratamente nella sovversione del concetto borghese di società) tale da coinvolgere ogni aspetto della vita dei primi anni del XX secolo.
Una straordinaria, concentrata, esposizione di capolavori assoluti illustra con rara chiarezza l’itinerario dell’arte italiana dei primi anni del ‘900 verso la modernità. La rassegna è in corso dal 5 marzo al 6 giugno presso il MAN, Museo d’arte della Provincia di Nuoro , è organizzata dal MART di Rovereto che, per l’occasione, presta una sessantina di opere del proprio ricco deposito ed è curata, con grande spirito di collaborazione da Cristiana Collu, direttrice del MAN con radici in solidi studi medievistici e archeologici e Gabriella Belli, direttrice dal MART e storica dell’arte nota internazionalmente.
Il tema centrale della mostra è: in che cosa l’arte italiana del primo Novecento è davvero così foriera di nuovi linguaggi culturali per la civiltà occidentale?
Con Medardo Rosso la materia sfugge alle costruzioni predeterminate dalla Natura e si scioglie in un’infinita possibilità di risorse visive. Il canone estetico assume nuove ombre e scopre il mezzo fotografico per definire le proprie linee guida (“Niente è materiale nello spazio… noi non siamo che scherzi di luce”), mentre la cera si adatta alla prima ribellione impressionista superando anche quest’ultima. Le conseguenze dei traguardi artistici di Medardo non saranno mai abbastanza riconosciute sino ad oggi, con alcuni recenti studi che ne consacrano l’immensa influenza nell’arte europea a lui successiva.
Il Divisionismo di Pellizza, Morbelli, Previati e Segantini arriva alla natura intima delle cose, assume atteggiamenti e misure patetici e intimistici e tecnicamente scompone la realtà in colori puri. Gli stessi Boccioni, Carrà e Severini iniziano le proprie carriere artistiche attingendo ampiamente al movimento divisionista, meno interessati ai risvolti sociali che motivarono concettualmente gli artisti loro precedenti, ma più connotati da una forte spinta a una vera e propria rivoluzione formale.
Ma mentre Carrà rimane affascinato dalla scomposizione divisionista, tecnica che lo condurrà a soggetti intrisi di forte simbolismo, per Severini e Boccioni la lezione francese è più importante: troveranno entrambi rifugio nell’atélier di Giacomo Balla, che soggiornò a Parigi tra il settembre del 1900 e il marzo del 1901 e rimase impressionato (anche qui la fotografia diventa una sorta di nuova coscienza della sperimentazione artistica) dalle cronofotografie di Étienne-Jules Marey. Balla sta sviluppando i fondamenti della dottrina dei complementari: il colore scomposto non è un fine ma un mezzo della pittura. Il fine è catturare l’energia vitale del movimento in ogni sua espressione. Superare il dato sensibile del mezzo bidimensionale (la tela) per fornire nuovi traguardi ottici, più aderenti all’elevazione, al movimento rotatorio, alla circolarità e continuità dell’azione.
Severini, che ammetterà di non aver mai saputo cogliere in pieno il taglio scientifico dell’operazione condotta da Balla, abbandona definitivamente l’esperienza divisionista intorno alla fine del 1906. Sino al 1906, anche Boccioni rimarrà seguace delle ricerche di Balla, allorquando i viaggi a Parigi, a Mosca e San Pietroburgo, a Venezia e Milano, definiranno con sicurezza la fine delle affinità ideologiche con il Maestro, per tornare a cercare il “vero”. La lezione balliana ora disattesa è però assimilata e colta in pieno. Per Boccioni il vero deve emergere prepotentemente nell’opera d’arte, deve tornare a riempire la tela, perché possiede una forza che nessun simbolismo e nessuna metafora potrebbero restituire all’arte. Ma il percorso è tortuoso e Boccioni si dibatte ancora per qualche anno alla ricerca di una strada che lo condurrà nel 1910 alla teorizzazione della sua ricerca con il “Manifesto tecnico della pittura futurista”.
Il “mondo moderno” è il soggetto preferito da Carrà, Balla, Severini, Boccioni: la tecnica si sta evolvendo, ma, malgrado il rifiuto del passato, rimane vicino alle teorie divisioniste del colore, mutandone la definizione in “complementarismo congenito”. Ora sono l’azione e la figura dell’artista a cambiare il rapporto fra arte e società.
Il Futurismo nasce in un Paese arretrato tecnologicamente e giovane dal punto di vista del pensiero politico. Forse proprio in queste caratteristiche risiedono i motivi della spinta al nuovo e la sua vasta popolarità: la nazione moderna era ancora in via di costruzione, i Futuristi adottano un linguaggio persuasivo per definirla, renderla viva e popolare. L’effetto, come tutti sappiamo, fu dirompente, nel vuoto lasciato da certi sviluppi teorici di un decadentismo “ipocondriaco”.
Fra i primi futuristi è anche Mario Sironi, che non parte dalle premesse dei “teorici” Balla e Boccioni, interessati più ai problemi della luce propri del divisionismo che a quelli della forma/volume; mantiene, piuttosto, coincidente la tematica del ribaltamento delle prospettive rinascimentali. Egli è fondamentalmente anarchico: pur aderendo al retaggio esistenziale e alla spinta nazionalistica del nuovo Movimento, non ne condivide le infatuazioni esaltate del “tempo industriale”.
Ma, all’inizio, Sironi partecipa di slancio al manifesto futurista, intravvedendo per sé uno spazio autonomo e la possibilità di trasmettere anche gli insegnamenti cubisti che, con lui, davvero solo Morandi e Severini avevano assunto dall’esperienza parigina; un cubismo folgorato dall’ “arte negra e oceanica”. E benché egli contestasse tale innamoramento soprattutto in virtù dell’orgoglio di poter riferire la propria arte ad un retaggio primitivo che si fregiava del miglior preromanico in Europa, non resta indifferente al richiamo della linea e del volume (e della tridimensione scomposta) dell’arte “esotica”.
L’emblema della mostra di Nuoro è, del resto, testimonianza della misura sironiana anticipatrice di ogni rivolgimento formale degli anni successivi alla seconda guerra mondiale. La Natura morta con tazza blu del 1924, genere rarissimo per la nota avversione di Sironi che considera limitato il mondo rappresentato da pochi oggetti, s’innesta a buon diritto nella serie “classica” delle opere esposte alla Biennale di Venezia del 1924, per le quali le ricerche sul rapporto tra figura e architettura si erano compiute al meglio. E anche la composizione di questo quadro rimanda in primo luogo a quel ritorno all’ordine che viene preconizzato sin dai primi anni ’20 da Margherita Sarfatti, ma sfugge a un tale rigido schematismo per la libertà ancora cubista nell’esposizione, già estrema nel tratto più incisivo e astratto, e presaga di certa pittura realistica di matrice “socialista” che prenderà corpo e attraverserà con diverse fortune il periodo post-1945 sino a quasi i giorni nostri.
Come dire: scrivo poco con questa penna, ma quando la uso sono vate e dai miei scritti si aprono mille porte.
Il Ritorno all’Ordine, richiamo potente di Margherita Sarfatti in ricostruzione di un’arte che sembrava aver spento le pulsioni innovative con la delusione degli ideali della I guerra mondiale, aggrega molti artisti, alcuni dei quali confluiranno poi nella parabola fascista. Sironi fu fra i primi nel 1922 ad aderire alle teorie sarfattiane di Novecento di rigore di forma e contenuti nel rispetto della tradizione. Non sembri un capovolgimento di posizione.
Le teorie futuristiche non perdono in Sironi la loro vitalità ma confluiscono in nuovi elementi strutturali di adesione alla cultura antica sentita come irrinunciabile per l’artista italiano.
Verso l’arcaismo, il neoprimitivismo e il monumentalismo (concetti che, separati dal contesto storico del tempo, sono oggi di straordinaria attualità per la cultura artistica occidentale e non solo) ritorna anche Carrà – influenzato soprattutto da De Chirico -, il cui periodo sarfattiano è mirabilmente anticipato dall’opera “antigraziosa” e primitivista Il Fanciullo Prodigio del 1916 (nulla si perde delle conquiste del Futurismo…) indi da Nuotatori del 1932 in cui colori e strutture narrative giottesche si compenetrano in una composizione di innaturale “rozzezza”. Il quadro desta stupore e piace solo alle correnti più giovani del panorama artistico italiano, ma il tema del bagnante è simbolo della rinascita ed è consueto agli occhi del pubblico colto. Di fatto, il mito classico e il suo carico di forte identità culturale torna prepotente nei soggetti di molti dei maggiori artisti del tempo.
Il passato come sogno di epoche perdute per sempre, come allegoria di un’Età d’Oro non più ripetibile, è questione centrale nell’opera di Arturo Martini, il quale sottoscrive in pieno le indicazioni di Valori Plastici e, sfortunatamente per sé, anche la causa fascista che gli costerà dileggio e allontanamento dalla scena dell’arte. L’artista trevisano accoglie il messaggio del recupero dei canoni “primitivi”: le influenze della statuaria medievale, di Paolo Uccello e Pisanello sono talmente impressionanti da far pensare, nelle opere del primo ventennio del XX secolo, a una rivisitazione dell’arcaismo senza ripensamenti né spigolature. In seguito, e malgrado l’ostracismo di cui fu fatto oggetto, Martini giungerà a conquiste formali che solo recentemente sono accolte nella giusta ottica innovativa.
In Giorgio De Chirico, invece, l’influsso parigino – anche del più grande “arcaista” del tempo, Modigliani – fu prioritario su ogni altro richiamo. La valenza storico-mitologica, la necessità di individuare una realtà aldilà dell’universo sensibile finiscono per allontanarlo dalle matrici realistiche degli artisti di Valori Plastici, mentre il carteggio con Guillaime Apollinaire procede nella reciproca convinzione di avere scoperto un nuovo metodo di lettura delle forme artistiche contemporanee. De Chirico incontrerà a Parigi una fervente comunità, rivolta alla ricerca dei canoni primitivi che per alcuni, come Rousseau il Doganiere, porterà ad un simbolismo intriso di naïveté, mentre per altri, come Derain, Picasso, Weber e Brancusi, ritroverà in arcaismo e misura classica la nuova cifra stilistica.
Del resto De Chirico aveva sempre rigettato le dottrine delle avanguardie costruttiviste, rimanendo ancorato, per sorte culturale, allo studio iniziato negli anni di Monaco della classicità romantica ed enigmatica di Böcklin e Klinger. Maggiore solidità alle sue inclinazioni aveva poi conferito l’analisi della scultura antica e dell’arte italiana del Rinascimento.
La vita segreta delle cose, il mistero insondabile degli oggetti e dello spazio che li circonda, la solitudine e la melancolia dell’uomo contemporaneo saranno le tematiche fondamentali della Scuola Metafisica costituita nel 1917 a Ferrara insieme a Filippo De Pisis, al fratello Alberto Savinio e a Carlo Carrà, benché avessero già trovato espressione negli anni precedenti. La figurazione rimane caposaldo formale, ma è solo un “alibi” della realtà: definisce ma non significa. La filosofia schopenaueriana dell’uomo animale metafisico che segue l’impulso di conoscere la realtà delle cose (il noumeno) oltre la loro rappresentazione (il fenomeno), perché la materia è solo illusione, esprime forse al meglio le pulsioni delle correnti artistiche rivolte al passato, al sogno, alle epoche auree perdute e irrecuperabili.
Alberto Savinio, fine letterato, critico d’arte e di musica, procede solitario nel percorso che conduce all’automatismo psichico del Surrealismo, movimento poco battuto dalle nostre avanguardie, e rimane ad attendere un plauso che si è rinvigorito solo negli ultimi decenni ma che ancora deve crescere. La poetica di Savinio è caratterizzata dal concetto di arte che ha il compito di creare e ricreare mondi sino a far coincidere le rappresentazioni in un melting-pot, una sorta di sincretismo intellettuale, che fonde le teogonie della Bibbia con quelle della grecità classica. Savinio approfondisce l’idea prima della divinità origine del movimento e della materia, sempre opposta a un elemento distruttore di matrice “titanica”, fantastica, orrifica ma anche solidamente legata alle necessità terrigene dell’umanità.
Il gesto pittorico si slega dal realismo senza giungere all’astrazione né presupporla. L’uomo, conscio delle radici “orfiche” dell’esistenza, riconosce nei mondi saviniani le proprie ambiguità e i propri bisogni, ma non intende né può risolverli, riesce solo a esplicitarli. È evidente il cammino prodigioso che la ricerca freudiana ha già percorso in pochi anni dalla sua teorizzazione. Il Surrealismo sarà la degna espressione delle conquiste psicoanalitiche per l’arte visiva.
La mostra conclude con una bella serie di opere scelte di Giorgio Morandi inteso, in questo contesto, come colui che più di ogni altro in Italia raccolse gli spunti cézanniani, fece proprie tutte le lezioni del primo trentennio del ‘900 (compreso un Futurismo di maniera che sarà invece prova di personalissima comprensione del cubismo), ma di fatto attraversò ogni esperienza formale, assorbendo ciò che serviva – e null’altro – per arrivare alla sua unica concezione del mondo sensibile, osservato dietro l’obiettivo ristrettissimo e universale della natura morta (e del paesaggio, considerato comunque come “oggetto” di analisi distaccata e anti-realista).
Morandi fa propria ogni stagione delle avanguardie italiane, è colpito dalle lezioni post-impressioniste francesi e – forse – abbraccia più di ogni altra le ragioni della Metafisica (la sua rarefazione dell’oggetto sensibile e dello spazio che lo circonda): aldilà della posteriore evoluzione tecnica e estetica, questa rimane probabilmente la chiave di lettura più consona alla poetica del Bolognese.
A Nuoro è presente un’opera di estremo interesse che parrebbe negare quanto anzi detto. La Natura Morta del 1936 (Vitali 208) è costituita da una materia spessa e da una pennellata sgraziata. La compostezza e la linearità dei riferimenti alle costanti prove incisorie qui sembrano perdute in nome di una voluta, ricercata, libertà compositiva tanto da far presagire la nascita di un movimento informale con vent’anni d’anticipo. Nel 1936 Morandi preannuncia De Staël – come afferma anche Arcangeli nel 1964, con grande dispiacere del Maestro che rifiutava una simile contiguità. Eppure, la partitura della tela, intervallata di pieni e vuoti, indifferente alla tridimensionalità e alla prospettiva, incaricata solo di giustapporre le quote di luce con quelle dei diversi toni e delle ombre, è indifferente alle questioni figurative, così come a quelle propriamente espressionistiche e raggiunge la radice di una nuova frontiera ancora da scoprire, non più soltanto nel nostro Paese.
Nelle avanguardie europee d’inizio secolo convergono le principali correnti filosofiche sviluppatesi nella seconda metà dell’Ottocento, le quali trovano vigore e espressione nei diversi linguaggi artistici ancora perlopiù figurativi. Sarà forse l’ultima occasione per l’intellettuale del nostro Continente di abbracciare con tale compiutezza ogni risvolto del pensiero occidentale. Dopo la II guerra mondiale, la consonanza di concetti di fondo che compenetrava le diverse dottrine in arte, musica e letteratura si sposterà oltreoceano e determinerà una nuova lettura del mondo. La mostra del MAN permette l’analisi – unita la gioia per l’occhio – di questo straordinario momento storico.
Chiedo a Gabriella Belli, direttrice del MART (potente realtà culturale organizzatasi in pochi anni che ora si allea a un Museo affine nelle potenzialità e nelle prospettive): come nasce l’idea di questa collaborazione con il MAN? Dopo il successo nel 2006 della mostra sulla Transavanguardia, curata da Achille Bonito Oliva con opere della Collezione Grassi confluite a Rovereto ormai da diversi anni, quale scopo ha spinto il MART a ripetere l’esperienza?
« La mostra di Nuoro nasce nell’ambito dell’AMACI (associazione musei d’arte contemporanea italiani) per suggellare un’azione di scambio e di condivisione progettuale, che in questo caso specifico si focalizza sul ‘900 italiano o, diciamo meglio, su alcune personalità particolarmente importanti. Per Nuoro (soprattutto per la scuola) sarà comunque un’occasione importante per vedere e analizzare molti capolavori. In Sardegna non c’è nessuna realtà attiva nel moderno o nel contemporaneo: anche il grande progetto di un nuovo museo a Cagliari, di cui si parlava alcuni anni fa, è sfumato. Rimane Nuoro e noi siamo dunque con Nuoro! »
Ma non pare “anti-moderno” (per dirla con i Nostri) presentare al vasto pubblico, oggi apparentemente interessato più alle mostre block-buster o alle kermesse dedicate al contemporaneo, un progetto intelligente e di forte impronta didattica, una rassegna che invita a godere di capolavori ma costringe anche ad approfondire la ricerca?
« Curiosamente, oggi assistiamo ad un bisogno di riprendere i fili della tradizione e di ricomporre un quadro coerente e organico delle avanguardie del primo novecento. Dal Moma alla Tate, tutti i musei oggi alternano moderno e contemporaneo a dire che il secondo senza il primo non riesce a formare sufficientemente il pubblico, forse neppure a piacere a sufficienza, così che, oggi come oggi, necessitiamo ancora di una buona dose di dati storici per decifrare il contemporaneo. »
Ovvero: solo l’arte che fu avanguardia ha in sé le ragioni dell’avanguardia che sarà.