Scoppia la polemica sulla recente acquisizione da parte dello Stato italiano del capolavoro di Ludovico Brea. Si tratta di una “Ascensione” datata 1483 eseguita per la Chiesa della Conservazione di Genova, di recente acquistata dallo Stato per la Galleria Nazionale di Palazzo Spinola. E’ una pala d’altare di grandi dimensioni (258 x 123 cm). Cos’è successo? Subito dopo la decisione di acquisto al prezzo di 1,2 milioni di euro (rispetto alla richiesta di 1,45 milioni) su “La Repubblica” di Genova del 5 maggio, la collega Michela Bompani raccoglie in un pezzo il grido allo scandalo dei due esperti di Old Master Paintings di Sotheby’s e di Christie’s. E’ soprattutto il primo, Alberto Chiesa di Sotheby’s Italia, a mostrarsi stizzito, dichiarando: “E’ l’opera del Quattrocento genovese pagata al più alto prezzo nella storia del mercato in Italia”. E ancora: “per il mercato dell’antico 1.200.000 euro è una quotazione altissima: stiamo parlando di un artista che ha un mercato locale, non internazionale. Per dare dei riferimenti, il mercato dell’antico ha un tetto massimo di 6 milioni di euro: così venne venduto un Tiepolo formidabile e di enormi dimensioni da Sotheby’s. E non sono più di una ventina i quadri antichi che hanno superato il milione di euro nella storia delle aste in Italia”. Chiesa riconosce per altro l’altissima qualità dell’opera di Palazzo Spinola: “Questa ‘Ascensione’ mi pare di grande raffinatezza, è il più bel Ludovico Brea che abbia mai visto, perfettamente conservato – indica – ma mi riesce difficile comprendere l’importo della vendita. Oltre i 400-500.000 euro non riuscirei a stimarlo”. Molto più diplomatico -a onor del vero- e puntuale, Marco Riccomini -esperto di Christie’s- che afferma: “A determinare il valore, indeterminabile, di un’opera antica ci sono molti fattori: stato di conservazione, dimensioni, soggetto, storia del dipinto, provenienza, certezza dell’attribuzione, mi auguro, come credo, che il ministero abbia acquistato secondo criteri di congruità”. Sin qui il primo pezzo della Bompani che lascia interdetti per un semplice motivo di deontologia professionale. Nello stesso non viene riportata la versione della controparte. Nessuno della Sovrintendenza o del gruppo Wannenes, la casa d’aste genovese che ha proposto il dipinto allo Stato, viene interpellato. O meglio, vengono cercati (almeno sembra quelli della Wannenes) ma non riuscendo a trovarli il giornale decide di uscire senza il loro parere. Insisto su questo aspetto perché a mio avviso non solo è importante, ma riflette un modo di fare assai diffuso del nostro Paese. E’ impossibile tentare una critica del sistema applicando le sue stesse regole. La regola numero uno del giornalismo -lo sanno tutti- è attenersi ai fatti e pubblicare le opinioni di tutte le parti. Ma tant’è. Da alcuni anni a questa parte il vero giornalismo è soltanto un ricordo appannato. Il bello però deve ancora arrivare. Il giorno seguente le stesse pagine genovesi di “Repubblica” amplificano la notizia. Questa volta dando spazio a tutti, anche ai responsabili dei Beni Culturali, che raccontano nel dettaglio l’iter di questa trattativa terminata con l’acquisto. Su questa vicenda, Giovanna Melandri, deputato PD ed ex-ministro per i Beni Culturali (dal 1998 al 2001) rilascia una dichiarazione di fuoco: “Presenterò un’interrogazione parlamentare…i Musei italiani non riescono a coprire le spese di funzionamento, sono costretti a tagliare personale e poi non si bada a spese per gli acquisti?”. In un altro spazio il professor Fabrizio Lemme, celebre avvocato esperto di legislazione sull’arte e membro del Conseil artistique des musée nationaux di Francia (un organismo composto da una ventina di membri che decide gli acquisti per lo Stato) è ancora più drastico e perentorio dichiarando: “Il capolavoro assoluto di un maestro, anche se minore, può raggiungere alte quotazioni. Ma un milione e duecento mila euro mi pare una cifra enorme”. E aggiunge: “Se avessi portato una richiesta del genere al Conseil mi avrebbe mandato a casa la Gendarmerie”. Un’affermazione strabiliante. Riportata nel titolo del pezzo. Mentre in un altro spazio Vittorio Sgarbi prende posizione a favore dell’acquisizione. Sin qui i fatti. Qual è la nostra opinione? Io credo si debba distinguere due aspetti, ben diversi. Il primo riguarda l’opportunità o meno dello Stato italiano di procedere -di questi tempi- a nuove acquisizioni per arricchire il nostro patrimonio artistico. Il secondo verte sul problema della congruità o meno del prezzo. Fermo restando, ovviamente, che tutto si sia svolto nella massima trasparenza, poiché stiamo parlando per l’appunto di “soldi pubblici” e non di scelte private. Nel caso contrario la magistratura dovrebbe intervenire. Con il nostro plauso. Affrontiamo allora subito la questione posta dalla Melandri. L’ex ministro declina un tema certamente esistente, anche se in termini populisti. D’altro canto non è forse l’attuale style italiano quello del populismo? E allora? Perché scandalizzarsi? Dunque, facciamolo anche noi. E’ vero, lo Stato italiano è in gravi difficoltà economiche. Così come molte altre nazioni di questo sistemico capitalismo finanziario. Ma il capitalismo ‘tossico’ finanziario non è un complotto di macchine, ma di uomini in carne ed ossa. E gli Stati sovrani non sono fantasmi antropomorfi. Ma entità composte da donne e da uomini che li governano o li hanno governati. Che ora si venga a sostenere la tesi secondo cui le difficoltà di spesa derivano da soldi investiti in cultura e in storia, e oltretutto da un ex-ministro dei Beni Culturali è un paradosso che non riesco a digerire. Chi mi conosce sa bene quanto da sempre io sia piuttosto vicino alle sue idee, per essere franchi. Ma ci venga a dire, onorevole Melandri (visto che il populismo è un virus) quanti soldi lo Stato ha buttato via e continua a sprecare in altri campi. Non voglio parlare di stipendi parlamentari, dei portaborse, delle prebende e dei privilegi della sua casta. No, mi limito a osservare quanto poco viene speso ad esempio proprio nelle gestioni museali. I vari governi da decenni abbassano i fondi per il personale e per la gestione fisica dei nostri beni culturali. E continuano nel contempo a mantenere centinaia, migliaia di enti inutili. Si rilegga il grande libro di Sergio Rizzo, onorevole. Prima di incazzarsi per dei soldi (che sia un euro o un milione di euro) spesi per l’acquisto di un capolavoro del Quattrocento, veda di prendersela un po’ con se stessa e con i suoi amici e colleghi. Si occupi di altre vergogne italiane. Vedrà che le riuscirà facile trovarle. Certo lei -forse- ci capisce poco di soldi e di finanza vero? O almeno è un problema che sembra interessarle poco o nulla. Se è vero, come sembra proprio esser vero vero, che fa parte di quel drappello di deputati PD assenti dall’Aula parlamentare durante l’approvazione della legge sullo “Scudo fiscale”. Passata il 1 ottobre 2009 con 20 voti di scarto. E 29 assenze sui banchi dell’opposizione. Lo so, lo so, lei con Lanzillotta e Pistelli era a Madrid a seguire, per conto del Partito Democratico e del gruppo parlamentare, che aveva autorizzato la missione, i lavori del Convegno «Global Progress Conference» promosso dal Center of American Progress. Ma insomma, visto che la abbiamo votata e le paghiamo lo stipendio, non era il caso di organizzarsi meglio? Non era questo problema un pochino più grave, dal punto di visto finanziario per il nostro Paese, rispetto al terribile scandalo di un capolavoro finito da mani private a disposizione di tutti, foss’anche per una cifra fuori mercato? Non le pare? Vorrei anche fermarmi sulle dichiarazioni di Lemme, prima di passare all’argomento della stima. Io penso che sostenere l’ipotesi secondo cui di fronte a una proposta di acquisto (a qualsiasi cifra) possano arrivare i gendarmi sia un’affermazione grave. Che fa capo a una visione autoritaria dello Stato. Certo Lemme la usa come provocazione. Nel senso che una richiesta eccessiva e accettata
potrebbe far presumere interessi privati in mani pubbliche. Ma Lemme è troppo intelligente per non saper distinguere un’accusa certa da una presunta. Lui fa l’avvocato. Non il magistrato. E fortunatamente nemmeno il poliziotto. Se qualcuno immagina soltanto un reato ai danni dello Stato che invochi immediatamente delle indagini. Le manette sulle opinioni lasciamole ai fascisti. Un tempo solo di destra. Ora non più. Ma veniamo al cuore della questione. Il prezzo del Brea. Le autorevolissime opinioni di Lemme e di Chiesa (l’esperto Sotheby’s) accendono un dubbio reale. Al di là del fatto che a nostro avviso per lo Stato italiano sia senza alcun dubbio meglio spendere dei soldi per un capolavoro che per dei pensionati finti-invalidi, la benzina delle macchine blu dei deputati o il servizio manicure della Camera, quel prezzo pagato per questa magnifica pala è o non è congruo? Difficilissimo stabilirlo con certezza. Mentre l’esperto di Christie’s -Riccomini- esprime un’opinione genericamente condivisibile, senza giustamente entrare nel merito della congruità, quello di Sotheby’s va a nostro avviso fuori dalle righe. Perché? Innanzitutto perché traccia una brevissima e troppo sintetica storia del mercato degli Old Master (i dipinti antichi). Presa subito per buona e con troppa facilità dalla collega di “Repubblica”, impegnata -ovviamente- a fare informazione piuttosto che scandalismo. Alberto Chiesa cita se stesso e la Sotheby’s (quando tutti sanno molto bene che esiste una concorrenza spietata tra i vari esperti e le case d’asta per non parlare delle gallerie) con il fine di illuminare l’andamento delle quotazioni italiane sui dipinti antichi. Bontà sua. Meno male che i vertici del suo gruppo stanno spingendo per tentare di stimolare uno sviluppo legislativo e commerciale dell’italico mercato in senso globale e internazionale. Come non ricordare allora altri casi eclatanti di gravi errori nelle valutazioni, posti in essere proprio dal team internazionale di Sotheby’s sul fronte dei dipinti antichi? Se non sbaglio, giusto per limitarmi a un solo esempio, nel luglio 2001 un dipinto di Rubens fu stimato intorno ai 4 milioni di euro. Per poi essere venduto in asta a oltre 70 milioni. La quotazione di un quadro la decide il mercato. E il mercato è chi tira fuori i soldi. Non le chiacchiere. Di recente, da Dorotheum, un Frans Francken con una riserva di 1 milione è stato aggiudicato a più di 7. Che significa tutto ciò? Una cosa soltanto. Molto precisa. Di fronte a un capolavoro di un maestro conosciuto o di un minore di scuola regionale, il prezzo non lo decide chi vende. Lo decide chi compra. Sempre. Per la semplicissima ragione che un’opera d’arte è un unicum. Non riproducibile. Non si tratta di scarpe o d’una macchina. Quella c’è e basta. Il Picasso che ha fatto il nuovo record la settimana scorsa da Christie’s a New York aveva una riserva di 58 milioni di dollari. Ma è stato acquistato a 106,4 milioni. La scultura di Alberto Giacometti venduta nel febbraio scorso a Londra, da Sotheby’s, partiva da 9 milioni di sterline. Ma l’ultima offerta pervenuta è stata di 58 milioni di pounds. Diritti esclusi. Pari a 104,3 milioni di dollari. Potrei continuare con altre pagine di esempi tratti dalla storia del mercato negli ultimi vent’anni. Ma mi fermo qui. Ancora una volta (come dicevano i nobili del Settecento “malgré soi” ) mi ritrovo pienamente concorde con l’intervento di Vittorio Sgarbi. Che al di là della sua solitaverve egoica, puntualizza la questione del Brea con grande equilibrio e straordinaria lucidità. Scrivendo: “Tutto è possibile, tutto è opinabile nell’arte antica” . La pala del Brea -racconta Sgarbi- è di “eccezionale importanza” e dunque il suo “valore economico non può essere misurato con i riscontri di mercato delle aste per piccole tavole attribuite, senza provenienza certa, e destinate a un collezionismo privato ‘da camera’ con un retrogusto estetizzante. La pala della chiesa della Consolazione è invece un risarcimento storico essenziale per la città di Genova e il suo valore si misura con la rarità e l’eccezionalità”. E ancora: “nulla di strano che anche con un mercato ristretto di pubbliche istituzioni e musei, magari di dimensioni internazionali, possa raggiungere la cifra pagata dal ministero con tutte le riserve e le perplessità che pur con l’indiscutibile importanza dell’opera accompagnano un acquisto così insolito, raro e oneroso”. Per questa ragione conclude con grande equilibrio: “Si può dire tutto e anche di condizioni economiche più vantaggiose. Ma non che non sia stato un acquisto giusto e intelligente”. Alla luce di tutte queste considerazioni la mia proposta è semplicissima. Posto che un simile acquisto da parte dello Stato italiano sia senza alcun dubbio sinonimo di intelligenza, sensibilità e interesse per la nostra straordinaria cultura e storia, restano dei dubbi sul valore di quest’opera? Che la si ritorni al proprietario e si decida di metterla in asta. Magari da Sotheby’s. Chissà che la Sovrintendenza non riesca veramente a comprarla a 500 mila euro, risparmiando ben 700 mila euro di soldi pubblici. Ovviamente Sotheby’s dovrebbe rinunciare alle sue commissioni. Ma se poi in asta (dove tutti possono partecipare) dovesse accadere che qualcuno faccia lievitare il prezzo comprandosela a una cifra superiore al prezzo scandaloso di oggi, beh allora l’ex-ministro, la redazione genovese di “Repubblica” e i vari esperti che oggi lanciano strali e accuse in qualche modo dovrebbero risarcire. Magari lavorando un mesetto gratis come custodi o ciceroni per la Galleria Nazionale di Palazzo Spinola. Che ne dite?
A conclusione delle celebrazioni del cinquantenario dell’apertura della Galleria Nazionale di Palazzo Spinola (1959-2009), volendo sottolineare la ricorrenza con un segno fortemente significativo, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha deciso di accettare la proposta di acquisto trasmessa dalla Galleria Nazionale di Palazzo Spinola arricchendone il patrimonio con una delle più significative testimonianze pittoriche realizzate a Genova nella secondo metà del Quattrocento: la tavola raffigurante l’Ascensione dipinta da Ludovico Brea nel 1483 per la cappella edificata dal notaio Pietro Fazio nell’antica chiesa della Consolazione a Genova.
L’opera, che costituisce finanziariamente la più impegnativa acquisizione decisa a livello nazionale dal Ministero nel corso del 2009, è stata individuata presso una collezione privata ligure, e proposta alla Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Liguria da Wannenes Art Auctions.
Si tratta della più impegnativa acquisizione decisa a livello nazionale dal Ministero per i Beni e le attività culturali nel 2009 (con un investimento di 1.200.000 euro).
Ludovico Brea
(documentato a Nizza e in Liguria dal 1450 al 1523)
Nato a Nizza verosimilmente intorno al 1450, nel giugno 1475 Ludovico Brea firma e data laPietà della chiesa dei Francescani di Cimiez (Nizza), sua prima opera nota. Dall’inizio degli anni Ottanta del Quattrocento sono documentati stretti rapporti con la comunità dei domenicani di Taggia, per il quale nel febbraio del 1483 egli accettò di realizzare la pala raffigurante laVergine della Misericordia, e con Genova, dove Ludovico Brea occupava il ventiseiesimo posto della locale matricola dei pittori. Risale a questo momento la realizzazione dell’Ascensione per la cappella di Pietro di Fazio nella chiesa della Consolazione, conclusa nell’agosto del 1483. Negli anni seguenti l’attività di Brea risulta scandita da numerose commissioni, sia per il territorio natio, sia per chiese ubicate nel Ponente ligure e a Genova. Nell’agosto del 1490 l’artista terminò la monumentale ancona affidata dal cardinale Giuliano Della Rovere a Vincenzo Foppa (Savona, oratorio di Santa Maria di Castello), per poi realizzare il Calvario (Genova, Galleria di Palazzo Bianco) già in di San Bartolomeo degli Armeni e una pala destinata alla chiesa genovese di Sant’Agostino, dove le fonti settecentesche segnalano la presenza di ben tre opere di Ludovico Brea. A capo di una fiorente bottega, nel centro portuale l’artista sarà attivo nel corso dei primi due decenni del Cinquecento, pur continuando a dipingere vari polittici destinati a piccoli centri orbitanti intorno a Nizza. In un atto redatto a Taggia nel marzo del 1523 il pittore risulta defunto.
Ascensione
1483
tempera su tavola, cm 258 x 123
Questa fondamentale testimonianza della produzione di Ludovico Brea venne menzionata da Raffaele Soprani all’interno della biografia dedicata all’artista contenuta nelle Vite de’ Pittori, Scoltori ed Architetti Genovese, e de’ Forastieri che in Genova operarono edite nel 1674. Lo storico ricordò infatti la presenza “in S. Maria di Consolazione” di Genova della “Gloriosa Ascensione di Cristo Salvator Nostro” recante in basso l’iscrizione “Ad laudem summi, scandentisque Etera Christi; Petrus de Fattio divino munere fecit hoc opus impingi Ludovico Niciae natus 1483. die 17 Augusti”. In base ai dati riportati nell’iscrizione, andata perduta in quanto verosimilmente inserita in corrispondenza del bordo inferiore della carpenteria, il dipinto, che in origine costituiva lo scomparto centrale di un’ancona di notevoli dimensioni poi smembrata, fu commissionato all’artista dal notaio genovese Pietro Di Fazio nel 1483 per la propria cappella sita nell’antica chiesa della Consolazione in Artoria (Val Bisagno), come ulteriormente ribadito nel secolo seguente da Carlo Giuseppe Ratti rielaborando la biografia seicentesca tracciata da Soprani (R. Soprani, C.G. Ratti, Vite de’ pittori, scultori et architetti genovesi e de’ forestieri che in Genova operarono, Genova 1768).
La tavola fu trasferita nella nuova sede della chiesa della Consolazione, edificata a partire dal 1682 nel borgo di San Vincenzo, per poi essere allontanata dall’edificio intorno al 1810, quando gli agostiniani dovettero abbandonare il convento in seguito delle soppressioni napoleoniche. Come documentato da Federigo Alizeri (Notizie dei Professori del Disegno in Liguria dalle origini al XVI secolo, Genova 1873) la tavola fu in seguito acquistata “con signorile animo in certo paesello della Riviera” dai “patrizi Negrotto” e nel 1868 venne esposta, con l’attribuzione a Ludovico Brea, dal marchese G.B. Negrotto-Cambiaso in occasione dell’Esposizione Artistico Archeologico Industriale allestita presso l’Accademia Ligustica di Genova.
Come già attentamente sottolineato negli studi dedicati alla tavola, la raffinata tavolozza cromatica, caratterizzata da una sapiente definizione dei passaggi tonali secondo un fare tipico della produzione del pittore, l’andamento cadenzato determinato dalla calcolata postura di ogni singola figura e dai loro pacati movimenti, i profondi legami con la cultura pittorica ligure-provenzale innestati sulla solida tradizione genovese di ascendenza lombarda diffusasi nel territorio nel corso della seconda metà del Quattrocento, sono elementi stilistici che permettono di comprendere con pienezza l’evolversi del linguaggio dell’artista, in questa opera giunto a una solida maturità, traguardo di cui Brea darà ulteriore prova pochi anni dopo al momento dell’affidamento della conclusione del monumentale polittico Della Rovere di Savona lasciato incompiuto dal bresciano Vincenzo Foppa.
Segnalato in numerosi studi pubblicati nel corso del Novecento quale importante tassello per la ricostruzione dell’intera biografia di Brea e, nello specifico, della sua attività per Genova – dove soggiornerà in più occasioni collaborando con artisti come Lorenzo Fasolo e Giovanni Barbagelata -, la pala, che allo stato attuale delle ricerche costituisce la prima opera eseguita da Brea per un mecenate genovese, è stata sottoposta nuovamente all’attenzione della critica in epoca recente grazie in particolare alla pubblicazione di contributi che hanno permesso di meglio precisare e ampliare le conoscenze relative al dipinto, nel frattempo rintracciato presso una collezione privata, dove giunse per via ereditaria dalla famiglia Negrotto-Cambiaso.
Si devono in particolare ad Anna De Floriani e Claire-Lisa Bionda due importanti approfondimenti sull’opera, ritenuta dalle studiose uno dei vertici della produzione di Ludovico Brea (C.L. Bionda,L’Ascension de Louis Bréa. Un inédit retrouvé dans una collection privée, in “L’Oeil”, 434, settembre 1991; A De Floriani, Verso il Rinascimento, in G. Algeri, A. De Floriani, La pittura in Liguria. Il Quattrocento, Genova 1991), confermandone in questo modo la completa autografia, del resto mai smentita dalla critica, come illustrato ancor più recentemente (C.L. Schwok, Louis Bréa ca. 1450 – ca. 1523, Parigi 2005).