Print Friendly and PDF

Il Novecento Russo a Venezia

MEMORIA/MISTIFICAZIONE/IMMAGINARIO.
Arte russa del ‘900 dalle collezioni Morgante e Sandretti

 
Malevich Kazimir: Contadina, 1910 83×60, olio su tela 

Venezia, Ca’ Foscari Esposizioni
Dal 22 aprile al 25 luglio 2010

Cento anni d’arte, dallo Zar a Stalin, a Putin. Tre Russie: dall’Impero all’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche alla nuova Federazione.
Le mette in mostra, ed è un evento per molti versi eccezionale, l’Università Ca’ Foscari Venezia in una rassegna certamente emozionante che sarà ospitata dal 22 aprile al 25 luglio a Ca’ Foscari Esposizioni. Curatori della rassegna: Giuseppe Barbieri e Silvia Burini.

 

Eccezionale, perché è la prima volta che in Italia un’esposizione presenta organicamentel’intero Novecento russo. Eccezionale perché lo fa attingendo a due grandi collezioni private, entrambe italiane, tra le più importanti di arte russa al mondo e in gran parte sconosciute: quelle create da Alberto Morgante e da Alberto Sandretti. Emozionante perché consente di rileggere e rivivere la storia di una nazione che ha influenzato come poche altre la storia del mondo per tutto il secolo.

Una storia in cui l’arte ha avuto un ruolo primario, di volta in volta strumento di memoria, mistificazione, riappropriazione. L’immaginario di un grande popolo è stato, oggettivamente, influenzato dai messaggi veicolati dagli artisti. Il “radioso avvenire” è diventato realtà nelle immagini di un regime più che nella quotidianità della vita.

 

La mostra indaga gli sviluppi della cultura figurativa russa e sovietica dalle avanguardie di inizio secolo al realismo socialista degli anni ’30-’50, fino all’underground, per concludere con alcune opere degli anni ’90.

Il Realismo socialista è stato forse il più grande esperimento mediatico mai compiuto: all’arte fu affidato il ruolo di trasformare la materia prima dell’ideologia in immagini e miti destinati al consumo di massa. Le arti figurative, ma anche l’architettura e il cinema, ebbero due principali funzioni: la propaganda e la costruzione del mito del radioso avvenire. Oggetto della propaganda non era la realtà, almeno non nelle forme concrete della vita quotidiana, ma il mito che l’arte era destinata a creare.

Centrale è la raffigurazione del leader, soprattutto la monumentale iconografia di Stalin che prosegue e sviluppa quella di Lenin. Questo il senso della grande attenzione riservata, in mostra, al manifesto di propaganda (Majakovskij, Rodčenko, Nal’bandjan, Klucis). I manifesti nacquero nell’ambito dell’attività di agitazione politica, che doveva coinvolgere la massa con un discorso “facile” ed emotivamente trascinante: celebrare un “nuovo mondo” in cui, secondo il famoso slogan di Stalin, “vivere è diventato più allegro”, mostrato in tutto il suo splendore attraverso le realizzazioni “virtuali” del comunismo.

La grande illusione contribuisce anche alla mistificazione dello spazio: la costruzione suprema, il centro dei centri del paese dei soviet doveva essere il monumentale Palazzo dei Soviet che non fu mai costruito, ma venne percepito comunque come esistente.

Saranno esposte inoltre opere straordinarie, di artisti del simbolismo e dell’avanguardia prerivoluzionaria come Benois, Končalovskij, Larionov, Gončarova, Ekster, Chagall, Kandinskij, Malevič, Tatlin, Fal’k e altri. Si tratta dei protagonisti che in buona misura hanno guidato e indirizzato tutta l’avanguardia mondiale. Stalin, senza riuscirci, provò a eliminare questa memoria fondamentale, nascondendo per anni le opere di questi artisti alla vista del pubblico e negando la possibilità anche fisica di qualsiasi tipo di dissenso.

Solo la scomparsa di Stalin, l’avvento del disgelo e il nuovo indirizzo politico di Chruščev consentirono la timida nascita di un’arte non ufficiale. I pittori presero a esporre nelle proprie cucine, spazio privilegiato di quegli anni, e i poeti leggevano le loro opere in casa. La pretesa degli artisti non conformisti (Rabin, Nemuchin, Kandaurov, Sitnikov, Kalinin, Jakovlev, Bulatov) non era quella di far valere un dissenso politico in modo ufficiale: esprimevano un dissenso “linguistico”, non volevano più usare la lingua del potere.

 

Negli spazi di Ca’ Foscari viene inoltre ricostruita una parte della Biennale del Dissenso che si tenne a Venezia, con grande rumore, nel 1977, segnando la definitiva consacrazione dell’underground moscovita: ben 26 opere provenivano anche allora dalle collezioni Sandretti e Morgante.

A fine percorso alcune opere di artisti degli anni ’90 riprendono in modo diverso ma coerente i tre grandi temi della mostra, la memoria dell’avanguardia, la mistificazione del realismo socialista e l’immaginario della pittura non ufficiale, in modo tale da comunicare come tutto il ‘900 russo sia pervaso da linee di tendenza coerenti, per la prima volta riunite in un’unica esposizione, elementi di un unico e affascinante puzzle. Questo grazie al fatto che le due collezioni che la mostra di Ca’ Foscari presenta offrono uno spaccato davvero consistente di una vicenda culturale che non si può semplificare se non rischiando di banalizzarla.

 

Tuttavia, è necessario ricostruire e visualizzare le diverse Russie, descrivendone anche l’atmosfera e la temperatura emotiva. Ciò sarà possibile grazie all’impiego di soluzioni innovative e di tecnologie multimediali d’avanguardia, tali da coinvolgere il visitatore nel contesto storico russo e sovietico considerato nelle diverse sezioni della mostra. Le mostre di Ca’ Foscari Esposizioni si caratterizzano infatti, con crescente successo, come un moderno laboratorio per sperimentare nuove forme di fruizione delle opere d’arte.

 

 
Ivanov Viktor, gouache su carta

________________________________

Il percorso espositivo 
(testo di Silvia Burini)

Nel corso del XX secolo lo sviluppo della pittura è certamente uno dei contributi più cospicui che la Russia ha dato alla cultura artistica europea. La mostra vuole suggerire gli sviluppi della cultura figurativa russa e sovietica dalle avanguardie russe dell’inizio del XX secolo al realismo socialista degli anni ’30-’50, fino al fenomeno culturale che di lì prende il nome di underground (chiamato anche arte non ufficiale o non conformismo), per concludere con alcune opere degli anni ’90: si tratta quindi di un percorso che copre l’intero XX secolo e che non è stato mai affrontato in precedenza in Italia.

 

VIVERE E’ DIVENTATO PIU’ ALLEGRO: IL REALISMO SOCIALISTA
Il percorso espositivo prende avvio con una sequenza di immagini del periodo del Realismo socialista. Il realismo socialista è stato forse il più grande esperimento mediatico mai compiuto: all’arte fu affidato il ruolo di trasformare la materia prima dell’ideologia in immagini e miti destinati al consumo di massa. Fin dalla sua comparsa il regime totalitario iniziò a costruire una nuova cultura aderente alla propria immagine. Le arti figurative, ma anche l’architettura e il cinema, ebbero due principali funzioni: la propaganda e la costruzione del mito del radioso avvenire. A essere oggetto della propaganda non era  la realtà, almeno non nelle forma concrete della vita quotidiana ma il mito che l’arte era destinata a creare Nell’atrio d’ingresso della mostra sono esposti i due temi classici e mitici della pittura sovietica: l’inizio della Rivoluzione, ossia La presa del Palazzo d’inverno  e la  Salva dell’Aurora. La notte tra il 24 e 25 ottobre 1917 il Palazzo d’Inverno era difeso solo da un gruppo di studenti male armati  e da un reparto femminile, ma dal dipinto che è in mostra (e da molti altri)  si può vedere una folla  di rivoluzionari. Ancor più dubbia è la salva del cannone che si racconta sia stata sparata dall’incrociatore la stessa notte sul Palazzo d’Inverno. Data l’importanza  che l’arte totalitaria attribuì  a questi riflessi della  “realtà” queste raffigurazioni  acquisirono automaticamente il carattere di fatti storici  e nei libri di storia assunsero il ruolo di testimonianze documentarie. L’arte fu lo schermo su cui proiettare questo mito. L’arte totalitaria doveva raffigurare i tipici aspetti della nuova vita e l’ottimismo che le era proprio, che più che essere ispirato al presente era proiettato verso il futuro: le facce dei lavoratori diventano così sempre più radiose man mano che il presente si faceva più terribile… Le raffigurazioni più gioiose del paradiso sovietico risalgono alla metà degli anni Trenta, subito dopo la collettivizzazione, la carestia e l’inizio delle deportazioni di massa.

L’EFFIGIE DEL POTERE
Il percorso espositivo continua con un focus sulla raffigurazione del capo: non doveva avere fattezze note, l’importante era il simbolo, la mitizzazione, cioè il leader come il popolo lo immaginava, e il popolo lo poteva immaginare solo come le arti figurative glielo presentavano. I cittadini sovietici sarebbero stati stupiti dall’apprendere che Stalin era piccolo, butterato e con un braccio più esile dell’altro: niente di tutto ciò infatti compare nei ritratti.

I MANIFESTI: TRASMETTERE LA RIVOLUZIONE
In questo senso risulta molto importante la parte cospicua che in mostra viene dedicata al  manifesto di propaganda e al cinema. La giovane Unione Sovietica riconobbe nel cinema e nell’immagine dei manifesti uno dei veicoli più importanti per la trasmissione dei nuovi concetti e dell’ideologia promossa dalla Rivoluzione d’Ottobre e per la costituzione del nuovo universo socialista in antitesi al passato. Il manifesto di propaganda (plakat) nacque nell’ambito dell’attività di agitazione politica. Fu utilizzato per divulgare tra le masse i complessi concetti ideologici che un testo scritto non sarebbe riuscito a trasmettere con pari efficacia. Nell’ambito della storia del plakat si identificano articolate tappe evolutive, che la mostra documenta. Gli anni ’20 videro l’esigenza di un messaggio diretto e violento, impostato su una evidente simbologia e improntato a una essenzialità che trovava un diretto antecedente visivo proprio nell’icona anticorussa. L’epoca della NEP (Nuova Politica Economica) costrinse il governo sovietico a occuparsi di pubblicità commerciale, oltre che di propaganda politica, mettendo all’opera le sue forze intellettuali migliori, tra cui Majakovskij e Rodčenko, per cimentarsi nella produzione di manifesti e slogan che contrastassero l’iniziativa privata, resa nuovamente possibile: i disegni da loro creati, tra cui le Vetrine della Rosta, furono riprodotti su fiancate di treni e di navi, sulle bandiere, su piatti e teiere che incominciavano a uscire dalle restaurate manifatture di ceramiche zariste, nei dintorni di Pietrogrado. Con il passaggio alla fase staliniana si sarebbe tornati a un modello meno elitario e più narrativo, che riconosce le proprie radici nel lubok, la stampa popolare sette-ottocentesca, inizialmente contrastata dalla cultura bolscevica. Dal 1934 in avanti il Realismo Socialista riporta prepotentemente in auge colori, tratti, sceneggiature e scenografie che dovevano coinvolgere la massa con un discorso “facile” ed emotivamente trascinante: si doveva celebrare un “nuovo mondo” in cui, secondo il famoso slogan di Stalin “vivere è diventato più allegro” e quindi il “radioso avvenire” doveva essere mostrato in tutto il suo splendore attraverso le realizzazioni “virtuali” del comunismo, esibizione presente di quanto avrebbe riservato il futuro. In quest’opera sarebbero stati coinvolti artisti di ogni livello, dagli autori più grandi agli scribacchini di corte. Si tratta, per usare un’espressione di Gian Piero Piretto, di una “categoria filosofica” in cui si costruisce un mondo possibile al quale il destinatario crede scambiandolo con quello reale: chi guarda sa che ciò che vede non è reale, ma ci crede.

UN’ARCHITETTURA ILLUSIONISTICA
La grande illusione continua anche nella mistificazione dello spazio che emerge nella sala dedicata all’architettura virtuale. Negli anni ’30 l’Urss era diventato un enorme teatro per spettacoli di massa e l’architettura era usata per dare forma a  miti  che prendessero corpo nella coscienza collettiva e divenne uno dei mezzi più efficaci per manipolare le menti. Gli effetti delle trasformazioni architettoniche si percepirono soprattutto a Mosca dove il centro storico era rimasto praticamente invariato per secoli, fino al 1930. Fu varato il  grande piano per la ricostruzione della città, un piano di ricostruzione fondato scientificamente che doveva essere l’inizio della ricostruzione di tutto il paese. La costruzione suprema, il centro dei centri del paese dei soviet doveva essere il monumentale  Palazzo dei soviet, pensato come l’edificio più alto del mondo, 415 metri, nel sito della chiesa di Cristo Salvatore: il culmine del centro nel sistema gerarchico di Mosca capitale dell’URSS e dell’URSS come centro del mondo progressista. La tendenza centralizzante del Piano generale per Mosca corrispondeva alla struttura di un modello di società ideale che era al centro dell’utopia staliniana. Il palazzo, come si vede dalle ricostruzioni in mostra, non fu mai costruito ma venne  percepito comunque come esistente: verranno presentati brani di film e altre forma di rappresentazione iconografica, dalle scatole dei cioccolatini  ai fiammiferi, di questa  immagine mitica. 

 Un altro evento centrale nel piano architettonico è la costruzione, stavolta realmente avvenuta, della metropolitana di Mosca che venne creata non solo come mezzo di trasporto, ma anche come insieme architettonico di stazioni/palazzi: la costruzione del metrò doveva essere l’esempio dell’evoluzione dell’architettura nel suo insieme, il prototipo dell’organizzazione  socialista del sistema dei mezzi di trasporto. La costruzione del metrò inaugurò un’ulteriore fase dell’architettura sovietica che  si sarebbe manifestata nella ricostruzione di Mosca. La prima linea aperta fu quella dal Park kul’tury fino a Sokol’niki già nel 1935 e fu il primo tentativo sovietico di usare pietra naturale, arti applicate e “architettura della luce” in un edificio che avesse fini pubblici. Fece una grandissima impressione sugli utenti che cominciarono a guardare tutti gli aspetti della vita attraverso questo prisma. La magnificenza di questi palazzi sotterranei creava un senso di aspettativa per uno stesso livello di magnificenza anche ad altri livelli della vita.

LA SCHIZOFRENIA DI MASSA 
La gente comune  conosceva fin troppo bene  la propria reale vita quotidiana, il proprio lavoro, i propri svaghi e sapeva che tutto ciò aveva ben poco in comune con quello che si  intendeva contrabbandare per “vera vita”: la realtà virtuale cioè contraddiceva in modo drammatico l’esperienza. Ma all’ideologia spetta anche una funzione di psichiatra sociale: la vita sovietica marciava su due binari, paralleli e in qualche modo mai  convergenti. Per capire dall’interno questa situazione di “schizofrenia di massa”, tre artisti contemporanei, Michail, Katia e Anna Margolis espongono in mostra un lavoro collettivo dal titolo La doppia infanzia. Si tratta di un’installazione interattiva che mostra il carteggio di una mamma rinchiusa in un gulag e della sua bambina, e intorno, per creare una  stridente dissonanza, i segni della propaganda stalinista, fatta di poster e fotografie, che suggeriscono una tenera e inesistente vicinanza tra il leader e  i bambini.

L’itinerario espositivo attende il visitatore al primo piano con una sorta di iconostasi, costituita di quadri del periodo sovietico e sulla parete di fronte troverà spazio una proiezione interattiva, in bianco e nero, con le fotografie  degli  artisti del secolo, per lo più scattate da un artista del periodo, I. Pal’min.

I CAPOLAVORI DELLE AVANGUARDIE 
Da qui si dipana un percorso di opere straordinarie, che provengono innanzitutto dalla collezione Morgante, di artisti del simbolismo e dell’avanguardia prerivoluzionaria come Benois, Končalovskij, Larionov, Gončarova, Chagall, Kandinskij, Malevič, Tatlin, Fal’k e altri. Si tratta della “tradizione interna” dell’arte russa ma anche dei protagonisti che in buona misura hanno guidato e indirizzato l’avanguardia mondiale. Stalin, senza riuscirci, provò a eliminare questa memoria fondamentale per tutta la cultura del 900, nascondendo per anni le opere di questi artisti alla vista del pubblico e negando la possibilità anche fisica di qualsiasi tipo di dissenso.

UNDERGROUND 
Solo la scomparsa di Stalin, l’avvento del cosiddetto disgelo e il nuovo indirizzo politico di Chruščev consentirono la timida nascita di un’arte non ufficiale. Per meglio comprendere il carattere dirompente dell’underground russo degli anni ’60 sono necessarie alcune precisazioni: tra il 1959 e il ’62 si registra l’inizio di una sorta di “contestazione made in URSS”, al punto che il 1961 è stato considerato da alcuni critici il “’68” dei giovani sovietici. La protesta investì soprattutto la vita artistica, anticipatrice di una pressante esigenza di cambiamento. Le opere dei primi artisti non conformisti sono un anello di fondamentale importanza per poter comprendere tutta l’evoluzione dell’arte russa contemporanea. L’underground moscovita nasce con la fine dello stalinismo e la “rinascita” segnata dal disgelo chruščeviano, che consentiva la coesistenza di due culture differenti, ufficiale l’una, clandestina l’altra. Per quanto riguarda la letteratura, quella del sottosuolo – o la “seconda letteratura”, come la ribattezzò Andrej Sinjavskij – si contrappone nettamente a quella ufficiale, e viene veicolata dall’editoria dattiloscritta o manoscritta nel samizdat, vocabolo coniato in Russia per indicare questo tipo di circolazione sotterranea. Contemporaneamente al samizdat, anche nelle arti figurative si andava delineando una situazione analoga, che merita grande attenzione perché solo collegando i due fenomeni si chiarisce quella complessa pagina di storia della cultura che sono gli anni Sessanta nella Russia sovietica. Attorno alla metà degli anni Cinquanta, alcune persone, unite dal disinteresse verso la cultura ufficiale e dall’aspirazione al rinnovamento, ebbero la possibilità di incontrarsi in occasione delle prime mostre autorizzate di pittura occidentale, come quella dedicata a Picasso (1956) o l’esposizione d’arte nazionale degli USA, dove furono esposte le opere degli Espressionisti astratti (1959). In seguito, gruppi di artisti e di scrittori, ma anche di semplici appassionati d’arte, fecero circolare le scarse informazioni di carattere culturale che si potevano ottenere in un paese ancora ermeticamente chiuso all’Occidente. Nacque così una vita “sotterranea” indipendente da quella ufficiale: i pittori presero a esporre nelle proprie cucine, spazio privilegiato di quegli anni, e i poeti leggevano le loro opere in casa. Un’atmosfera che poteva ricordare quella degli artisti delle Avanguardie russe degli anni Dieci e Venti, gli immediati predecessori – e talvolta anche i modelli – dei non-conformisti.

GLI ARTISTI E IL DISSENSO 
Caratteristica dell’underground moscovita è una sorta di “plurilinguismo” stilistico: ogni artista lavorava in modo del tutto autonomo, perché era molto difficile entrare in comunicazione con gli altri, e perché ciascuno sceglieva spesso di mettere al centro della propria arte se stesso, il proprio mondo e le proprie esperienze. La pretesa degli artisti non conformisti non era quella di far valere un dissenso politico in modo ufficiale, si trattava piuttosto di un dissenso “linguistico”:  molto  semplicemente volevano  “essere lasciati in pace a creare”. Questo fu possibile fino alla prima metà degli anni Sessanta, ovvero fino al passaggio di consegne fra Nikita Chruščev e Leonid Brežnev. Una scossa alla relativamente tranquilla vita degli artisti e del pubblico non-ufficiale venne dalla visita del segretario Chruščev al cosiddetto Manež (Maneggio) nel 1962, dove era in corso una mostra che doveva celebrare i trent’anni della più prestigiosa istituzione artistica sovietica, la sezione moscovita dell’Unione degli artisti. La visita si concluse con una sfuriata di Chruščev contro l’arte lì rappresentata, non allineata ai canoni del Realismo socialista. Gli artisti non-ufficiali continuarono comunque a creare, ma in una condizione di crescente paura. Con l’avvento al potere di Brežnev, la stagnazione che caratterizzerà la situazione politica e culturale ufficiale si ripercosse anche sull’underground, che visse un momento di silenzio fino alla metà degli anni Settanta, quando un gruppo di artisti cominciò a operare per ottenere dalle autorità sovietiche la possibilità di esporre liberamente, senza che le loro mostre venissero chiuse e i partecipanti intimiditi o puniti.

LA BIENNALE DI VENEZIA DEL 1977 
Nell’ultima sala del percorso verrà ricostruita una parte della Biennale del Dissenso che si tenne a Venezia, con grande rumore, nel 1977. Nell’impossibilità di esporre in Unione Sovietica, gli artisti dell’underground trovarono presto ospitalità in Occidente, e soprattutto in Europa. In Italia le prime esposizioni datano già alla metà degli anni Sessanta. Non furono realizzate da musei, ma da gallerie: la prima in ordine di tempo fu “Alternative attuali 2”, tenutasi a L’Aquila a cura di E. Crispolti. Vi parteciparono, fra gli altri, Kabakov, Sooster e Jankilevskij. A questa seguì, nel 1967, una mostra più ampia a Roma presso la Galleria “Il segno”. L’arte dell’underground moscovita fu definitivamente consacrata da un’edizione speciale della Biennale di Venezia dedicata all’arte del dissenso nell’Europa dell’Est: nel 1977 si tennero una conferenza cui partecipò anche il poeta Iosif Brodskij e una mostra dal titolo “Nuova arte sovietica: una prospettiva non-ufficiale”, con ben 26 opere provenienti in gran parte dalle collezioni Sandretti e Morgante.

UN SECOLO COERENTE
Nel salone del piano nobile, per poter avere una visione storicamente non distorta dell’arte russa  del ‘900 sviluppatasi in seguito, sono in mostra alcune opere di artisti degli anni ’90 che riprendono in modo diverso i tre grandi temi della mostra: la memoria dell’avanguardia, la mistificazione del realismo socialista e l’immaginario della pittura non ufficiale. Ciò permette di capire come tutto il ‘900 russo sia pervaso da linee di tendenza  coerenti, che per la prima volta vengono esposte in un’unica mostra, come elementi di un unico affascinante puzzle, grazie al fatto che le due collezioni che la mostra di Ca’ Foscari presenta offrono uno spaccato davvero consistente di una vicenda culturale che non si può semplificare se non rischiando  di banalizzarla.  

Tuttavia, è necessario ricostruire e visualizzare il secolo, descrivendone anche l’atmosfera e la temperatura emotiva. Ciò sarà possibile grazie all’impiego di soluzioni innovative e di tecnologie multimediali d’avanguardia, tali da coinvolgere il visitatore nel contesto storico russo e sovietico considerato nelle diverse sezioni della mostra. Le mostre di Ca’ Foscari Esposizioni si caratterizzano infatti, con crescente successo, come moderno laboratorio per sperimentare nuove forme di fruizione delle opere d’arte.


Tatlin Vladimir 1915, 87×65,5 tempera carboncino su carta

 

________________________________

 

La collezione Morgante 
(testo di Silvia Burini)

Alla fine degli anni Quaranta, Alberto Morgante (nato a Magliano dei Marsi il 28 marzo del 1925), si trasferisce a Roma per continuare gli studi. Ma presto è attratto dal vivace mondo artistico. Frequenta il caffè Canova, in Piazza del Popolo, in voga tra gli artisti del tempo (tanto che si parlò di “Scuola di Piazza del Popolo”). Conosce molti pittori e comincia, con una passione che non lo abbandonerà facilmente, a collezionare pittura italiana: Boccioni, Balla, Severini, De Chirico, Guttuso, Casorati, Morandi, De Pisis, De Nittis, Rosai, Omiccioli (per citarne solo alcuni). Successivamente, anche se impegnato in un impresa commerciale di notevole portata – aprirà il primo supermercato in Abruzzo e uno dei primi in Italia, carriera che gli frutterà successivamente il conferimento di una laurea ad honorem in Economia alla Columbia University (NYC) –, non cessa le sue frequentazioni artistiche. Così, quasi casualmente comincia la storia della parte russa della sua collezione. L’incontro avviene tramite l’amico Franco Miele, pittore e storico dell’arte che gli propone di acquistare opere d’arte, che Miele stesso, in quanto diplomatico, riusciva a portare in Italia da Mosca.
Nasce così una collezione corposa, che contiene autentici capolavori dell’arte russa dell’inizio del XX secolo, estendendosi cronologicamente fino all’underground russo degli anni Sessanta, di cui Morgante possiede un cospicuo numero di pezzi.La raccolta comprende  alcuni pittori ottocenteschi della scuola dei peredvižniki ma soprattutto maestri  del ‘900, alcuni presenti con due o più opere. Si tratta di  esponenti del simbolismo russo come Borisov-Musatov e Vrubel’,  impressionisti come Korovin, pittori di Mir iskusstva come Benois, Kustodiev; il Larionov del periodo impressionista e la Gončarova del periodo raggista, Chagall, Kandisnkij, rappresentatni del Fante di Quadri come Končalovskij, Maškov, Kuprin, Fal’k, pittori della Rosa azzurra come  Kuznecov, Sar’jan, cubofuturisti come Burljuk, il Malevič del periodo neoprimitivista e suprematista, esponenti del costruttivismo come  Popova e  Tatlin. Ci sono inoltre esempi di arte post- rivoluzionaria con presenza di alcuni pezzi del realismo socialista (da Dejneka a Korin).

 

________________________________

 

La collezione Sandretti
(testo di Silvia Burini)

La figura di Alberto Sandretti è uno straordinario esempio di collezionismo erudito e di attenzione per il mondo dell’arte manifestatisi con metodo e perserveranza. Sandretti ha iniziato a collezionare al principio degli anni ’60 a Mosca, dove aveva compiuto gli studi universitari e dove da allora in poi si è sempre svolta parte della sua attività professionale. Nel tempo la collezione ha continuato a crescere e oggi vi figurano pezzi unici e di straordinaria importanza. Si tratta di oltre ventimila pezzi fra dipinti, sculture, opere grafiche, porcellane, manifesti, cartoline illustrate, distintivi, oggetti e libri, che rispecchiano il processo artistico, culturale e politico della Russia/Unione Sovietica nel corso di tutto il XX secolo.
La parte più cospicua della collezione – circa 5000 pezzi – è quella costituita dai manifesti propagandistici. Accanto ad alcuni esemplari delle “Vetrine della ROSTA” risalenti ai primi anni dopo la Rivoluzione, la collezione presenta alcune decine di opere del maestro del manifesto sovietico Viktor Ivanov (si tratta di esemplari originali, di copie a stampa e di alcuni rari bozzetti preparatori) e una serie di lavori della Sezione moscovita dell’Unione degli artisti dell’URSS (iniziata nel 1959 e conclusasi con la fine dell’Unione Sovietica) che intendeva recuperare e resuscitare la linea delle “Vetrine”. 
La sezione “cartacea” della collezione comprende anche diecimila cartoline illustrate, pubblicate fra la metà dell’Ottocento e la fine del Novecento, e un fondo di circa 2500 periodici e libri, fra rari e moderni. Fra i libri rari sono presenti alcuni esemplari di libri futuristi e di pubblicazioni risalenti ai primi anni Trenta, oltre alla raccolta completa di alcune riviste simboliste e postsimboliste.

L’altra parte significativa della raccolta è quella dedicata alle arti figurative: si tratta di un importante nucleo di opere pittoriche e grafiche del periodo delle Avanguardie storiche, e soprattutto di un cospicuo numero di pezzi appartenenti alle correnti artistiche alternative al Realismo socialista, sviluppatesi negli anni Cinquanta e Sessanta. Completano la collezione opere degli ultimi anni del Ventesimo secolo di alcuni degli artisti russi fra i più noti. 
Infine è rappresentata anche l’arte applicata, presente con 500 pezzi di porcellana del Novecento (particolarmente preziose quelle “rivoluzionarie” della fine degli anni Dieci e dei primi anni Venti).

 

______________________________
Informazioni utili:
http://www.russie.it/
La mostra “RUSSIE! memoria/mistificazione/immaginario nell’arte russa del ‘900” gode dell’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana, con il Patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero degli Affari Esteri. 
L’iniziativa è promossa dall’Università Ca’ Foscari Venezia e dalla Regione del Veneto, è sostenuta dalla Fondazione Alti Studi sull’Arte di Venezia, con il contributo di Enel, in collaborazione con Banca Popolare FriulAdria-Crédit Agricole, Terra Ferma Edizioni, Simest e Gruppo Masserdotti .
Il catalogo della mostra è a cura di Terra Ferma Edizioni 
Apertura al pubblico: da giovedì 22 aprile a domenica 25 luglio (tutti i giorni, escluso martedì, 10-18). Ingresso a pagamento: intero € 7; ridotto (minori di 15 e maggiori di 60 anni; visitatori delle istituzioni con cui sono attivi rapporti di reciprocità, tra cui Guggenheim Collection e Fondazione Cini; soci e dipendenti FriulAdria) € 5; ridotto (studenti e docenti delle Università italiane, gruppi scolastici, gruppi di più di 10 persone, residenti nel Comune di Venezia, dipendenti Enel con accompagnatore) € 3; gratuito per docenti, studenti e personale di Ca’ Foscari, ulteriori agevolazioni per i sostenitori della mostra
Informazioni e prenotazioni: 041.2346947

Commenta con Facebook

leave a reply

*