dalle collezioni Camuccini, Romolo Belli di Firenze ed altre provenienze Roma, 13 maggio 2010
Questa maestosa tavola inedita rappresenta un’affascinante aggiunta al corpus della pittura fiorentina nei decenni centrali del XVI secolo, divisa tra l’aggiornamento al più moderno linguaggio pittorico della maniera – rappresentata al massimo livello da Rosso, Pontormo e dal più giovane Bronzino – e le consolidate ortodossie michelangiolesche e sartesche. È questo un capitolo della storia dell’arte toscana che, sorprendentemente, non è stato dissodato appieno dagli studi, se non forse per quanto concerne i suoi protagonisti principali (in primis Vasari e Salviati): è così che l’opera di pittori notevolissimi come, solo per fare qualche nome, Pierfrancesco di Jacopo Foschi, Carlo Portelli, Michele di Ridolfo del Ghirlandaio, Francesco Brina, attende ancora di essere posta pienamente in luce. La pala d’altare che qui si presenta si colloca chiaramente in quest’alta congiuntura artistica, intorno alla metà del secolo, esemplificando in primo luogo il significato e la portata della lezione di Michelangelo, ma attestando altresì la multiforme ricezione in ambito fiorentino del relativamente più avvicinabile idioma pittorico di Andrea del Sarto. Le figure sprigionano, in effetti, una possanza ed energia quasi impensabili senza l’esempio degli affreschi della volta della Cappella Sistina e del Giudizio Universale, declinati peraltro in una concezione aliena da qualsiasi esasperazione sperimentale manierista e piuttosto ispirata alla ricerca di un semplificato equilibrio classico, sin quasi algido pur nella monumentalità della scala adottata. I volti dei tre personaggi che fanno da testimoni della scena evangelica costituiscono altrettanti ritratti che permettono di cogliere una stretta contiguità coi modi di Francesco Salviati. La porzione centrale della scena richiama dal punto di vista compositivo il Battesimo di Cristo dipinto da Giorgio Vasari nel 1549 su una faccia dello Stendardo per la Compagnia de’ Peducci di Arezzo e oggi nel locale Museo Diocesano, ma sembra anche memore dell’affresco del medesimo soggetto eseguito nel 1541 da Jacopino del Conte nell’Oratorio di S. Giovanni Decollato a Roma. Il disegno è padroneggiato con spavalda sicurezza, con una profilatura delle sagome nitida ed incisiva, veramente fiorentina e condotta, per dirla con le parole di Vasari, “con fierezza e senza stento”; il colorito è acceso e brillante, ma non privo di ombreggiature profonde e gagliarde. Alla luce di queste caratteristiche il riferimento a Michele Tosini, detto “di Ridolfo del Ghirlandaio” per essere stato a lungo allievo, collaboratore e seguace di quest’ultimo, sembra il più stringente, traendo linfa dal confronto con varie opere del pittore a cominciare dalla Madonna col Bambino in gloria con i SS. Francesco, Giacomo, Lorenzo, Chiara e un donatore, Firenze, Cenacolo di San Salvi, databile verso il 1535-1540, dalla Sacra Famiglia conservata nei depositi di Palazzo Pitti a Firenze, e dalla più tarda Aurora iper-michelangiolesca della Galleria Colonna a Roma*.
lotto 33, Francesco Albotto (Venezia 1721 – 1757), Capriccio con figure, rovine classiche, un fiume e un villaggio sullo sfondo, olio su tela, cm. 97×150, stima: € 100.000-120.000
Le tele che qui s’illustrano rappresentano due tra i più celebri rapimenti delle Metamorfosi di Ovidio: il ratto di Proserpina, figlia di Cerere, da parte di Plutone che la strappa al suo mondo luminoso portandola sul proprio carro verso il regno degli inferi, e quello di Europa perpetrato da Giove trasformatosi in toro. Il pittore si concentra sul momento in cui le belle giovinette vengono allontanate dalle loro compagne e proprio questo frangente cruciale del racconto gli offre l’opportunità, da un lato, di applicare con profitto il proprio raffinato estro narrativo, dall’altro, di esibire una composita cultura figurativa, che sidirebbe consapevole, proprio sul finire del XVII secolo, non solo, com’è naturale, della produzione dei grandi genovesi Valerio Castello e Grechetto, ma anche di artisti più giovani come il veneziano Sebastiano Ricci e il fiorentino Pier Dandini. Per il suo marcato dinamismo, il colorismo vivacemente contrastato, la freschezza compositiva, la leggiadria decorativa, la nostra coppia di scenografiche telette può essere raffrontata con alcune mature opere di soggetto mitologico di Domenico Piola, tra gli assoluti protagonisti, grazie anche alla sua fiorente scuola, della civiltà figurativa genovese di secondo Seicento. Basti qui richiamare, come termini di comparazione stilistica, la versione verticale della Giovinezza insidiata dal tempo (Allegoria della Vanitas) in collezione privata genovese, il Bacco e Arianna della collezione Zerbone di Genova e il Ratto d’Europa di grande formato oggi nelle Collezioni di Banca Carige a Genova. La coppia di dipinti è accompagnata da una comunicazione scritta del Prof. Ferdinando Bologna in cui si sostiene l’attribuzione a Domenico Piola*.
dal lotto n. 1 al n. 158
da sabato 8 a giovedì 13 maggio 2010
10.30 – 13.30 / 15.00 – 19.00
giovedì 13 maggio l’esposizione terminerà alle ore 13.00Info: www.finarte.it