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Intervista a Gabriele Basilico

Gabriele Basilico nasce a Milano nel 1944. Architetto di formazione, sceglie la fotografia per testimoniare le trasformazioni sociali e i mutamenti del paesaggio contemporaneo. Il suo primo progetto fotografico , iniziato nel 1978, è Milano ritratti di fabbriche 1978-80, un approfondito lavoro in bianco e nero sulla periferia industriale milanese, presentato nel 1983 al PAC di Milano. Nel 1984 è il primo e unico italiano invitato a partecipare alla Mission Photographique de la D.A.T.A.R., voluta dal governo francese per documentare i cambiamenti del paesaggio transalpino. Nel 1991 prende parte alla Mission Photographique sulla città di Beirut, una campagna fotografica realizzata alla fine della guerra insieme ad alcuni grandi protagonisti della fotografia come Robert Frank, Josef Koudelka e Raymond Depardon.

Successivamente Basilico realizza numerosi progetti italiani ed internazionali: “Italy, cross sections of a country” (1998), “Interrupted City” (1999), “Cityscapes” (1999), “Berlino” (2000), “Scattered City” (2005), “Appunti di viaggio” (2006), “Intercity” (2007).Tra i lavori recenti, “Silicon Valley” (2008).

Con oltre trentacinque anni di instancabile indagine fotografica sulla città, sulle sue forme e i suoi mutamenti, Gabriele Basilico è oggi considerato uno dei grandi maestri della fotografia contemporanea. Dal 16 settembre fino al 12 dicembre 2010 alla Fondazione Stelline di Milano è ospitata una sua grande mostra intitolata Istanbul 05.010. Nelle trentadue fotografie esposte Basilico svela il carattere più profondo della città, cogliendo le trasformazioni e le dinamiche evolutive, tramite quell’esattezza dello sguardo a cui il grande fotografo ci ha abituati. Come scrive Luca Doninelli nel testo critico del catalogo, “In un particolare che sembrerebbe insignificante Basilico cattura tutta Istanbul, la squaderna in una vecchia casa, in un incrocio, in una scala, in un furgone, in una ringhiera sbilenca, in un alberello solitario. In tutte queste cose, per citare l’immenso Roland Barthes, io riconosco con tutto me stesso Istanbul. Non sono più dettagli, ma lo stesso respiro che si ripete.”


A distanza di cinque anni è tornato due volte a Istanbul: nel 2005 per la IX Biennale Internazionale di Istanbul e nel 2010 in occasione di Istanbul Capitale Europea della Cultura. Che impressione le ha fatto la città, e che differenze ha notato tra un viaggio e l’altro?

In realtà per me si è trattato di un viaggio di ritorno: la prima volta che ci sono stato era il 1970 e Istanbul si trovava sull’itinerario che andava fino a Persepolis nel golfo persico,  passando per la Turchia e l’Iran. Arrivando a Istanbul per la prima volta, mi sono trovato di fronte una città carica di seduzione e di valori simbolici: si percepiva fortemente il confine dell’Europa. Al di qua e al di là del Bosforo, il paesaggio era simile, ma, grazie anche al potere dell’immaginazione, c’ era l’illusione che a oriente fosse diverso: più polvere nell’aria, profumi e suoni più intensi, compresa la voce del muezzin amplificata dagli altoparlanti.
I due grandi ponti che uniscono l’Europa all’Asia non esistevano ancora, ma il collegamento era assicurato dai ferry. Ora lo stretto separa una città unica divisa solo dall’acqua, che si dilata in modo quasi infinito per oltre 30 Km. nella parte orientale.

Come fotografo insegue percorsi in luoghi che diventano senza storia, in cui si perde l’identità. Quanto è stato difficile attuare un simile processo in una città come Istanbul, con una forte connotazione storico/culturale?

Sia nella zona orientale che nella zona occidentale, lontano dal vecchio centro intorno al Corno d’Oro, la città si espande, la popolazione aumenta in modo esponenziale.
L’immagine urbana che ne risulta è quella di una città diffusa, globalizzata.
Per capire che si è in Turchia, bisogna concentrarsi sulle scritte dei negozi, sui manifesti e gli apparati della comunicazione.
Questa Istanbul contemporanea è una città già fortemente europeizzata, forse è diversa la parte centrale, come il quartiere Beyoglu, con i suoi palazzi d’epoca e gli edifici in legno che si affacciano sul Corno d’Oro: è quella Turchia che assomiglia alle immagini descritte dal grande Orhan Pamuk.

Nel suo lavoro traspare la necessità di ricerca di punti di corrispondenza e di contatto tra luoghi molto diversi tra loro. Perché metterne in risalto le analogie e non le differenze?

Quando fotografo non mi concentro mai su un solo dettaglio, su un singolo, preciso oggetto. Ma cerco di allargare il mio punto di vista, dallo spazio stradale fino alle grandi vedute. Il mio punto di vista può anche coincidere con quello di un osservatore qualsiasi.
Poiché la città è un mix di situazioni diverse, opero una selezione, decido cosa fotografare e cosa escludere dall’inquadratura.
È lì che, resto in attesa che la città mi racconti le sue storie, che riaffiorino i legami con la memoria del passato suo, ma anche di altre città.

Ha dichiarato di avere da sempre come punto di riferimento Walker Evans, celebre per aver raccontato la crisi economica degli anni Trenta negli Stati Uniti. E’ stato un fotografo sociale e di denuncia della condizione umana. Ritiene di attuare con la sua opera un’indagine sociale?

Walker Evans ha lavorato negli anni Trenta, è stato il protagonista della celebre campagna FSA (Farm Security Administration), voluta dal presidente Roosvelt durante il New Deal.
Una delle grandi qualità di Evans è stata la sua dimensione etica e il suo rispetto per le persone e gli spazi fotografati. Il suo lavoro, per queste e altre ragioni,  è stato un modello, un riferimento, per tutte le generazioni successive. La fotografia, quando ha un approccio documentario, ha spesso una funzione sociale.
Evito di fare espressamente fotografie di denuncia, anche quando fotografo soggetti a rischio, ma cerco invece di addolcire lo sguardo, per escludere immagini troppo forti o drammatiche. Mi sembra un metodo per cercare di capire meglio quello che mi sta davanti.

Osservando le immagini presentate alla mostra Istanbul, la presenza della figura umana è meno celata rispetto alle fotografie precedenti: in maniera esplicita, come la figura femminile che sullo sfondo sta aprendo una porta, o in maniera indotta, come la presenza delle bandiere sui balconi: si può dire che sta cambiando qualcosa nel suo lavoro relativamente al rapporto uomo- architettura?

Qualcosa di nuovo arriva sempre, ma non credo si possa dire in questo caso, cioè a proposito della presenza/assenza delle persone.
Quando lo spazio che mi sta davanti è compatto e non ha una grande profondità (strade, incroci, corti, ecc.), preferisco avere il vuoto, cioè dialogare con lo spazio stesso.
Man mano che ci si allontana e si inquadra una porzione di spazio più grande fino ad arrivare alla veduta, si ha una dimensione del lontano, come ad esempio nelle tavole di Canaletto o nelle incisioni di Piranesi, che comprende poche o tante figure che si confondono in lontananza e appartengono quindi al paesaggio stesso.
Si tratta, in questo caso, di aspettare e di trovare un equilibrio dove il movimento delle persone o delle auto non crei un punto emergente.

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