UN GIORNO ALLA GAM DI MILANO
Ogni tanto ci passo perchè è troppo bella e ogni volta ne rimango dispiaciuto, amareggiato, attonito. Succede ogni qualvolta che visito la Galleria d’Arte Moderna di Milano e mi capita spesso. Succede che oggi giovedì 25 novembre 2010, un ordinario pomeriggio di autunno con uno splendido sole, l’unica sezione che trovo aperta è quella del romantico ‘800 al primo piano; scopro che il neoclassico piano terra è inaccessibile, e il Museo Marino Marini, la Collezione Grassi e quella Vismara sono chiuse. Mancanza di personale che fa spola con il nuovissimo Museo del Novecento all’Arengario mi spiegano o ancora “problemi di allestimento” e “lavori in corso: sono in partenza delle opere per alcune mostre“. Mai una volta che riesca a vedere il Museo interamente; settimana scorsa ad esempio erano usufruibili solamente il piano terra e metà delle sale del primo piano perchè alle 4 di pomeriggio c’erano troppi pochi addetti e mi hanno consigliato di tornare la mattina successiva.
La Galleria d’Arte Moderna è, come risalta dal finalmente attivo sito internet – http://www.gam-milano.com/ – , “la più grande collezione municipale di opere dell’Ottocento“, con opere che toccano 150 anni di pittura italiana in prevalenza settentrionale, da metà settecento ad inizio novecento, da Giuseppe Bossi, Pompeo Marchesi, Canova e Appiani ad un compendio magistrale di tutta l’opera artistica ottocentesca, Scapigliatura, Divisionismo, Paesaggismo, Simbolismo, Realismo, Verismo, Romanticismo, gli “Italiani a Parigi”, scultori come Medardo Rosso e Vincenzo Gemito fino agli albori delle avanguardie.
Scopro con tristezza che Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo ha abbandonato il suo posto di sempre lasciando il vuoto sulla parete oltre che negli occhi e nell’animo: è del 1901 ed è stato trasferito ieri, mercoledì 24 novembre, al neo Museo del Novecento. Mi confidano che il nuovo polo museale sia però assai freddo, scale mobili e allestimenti che ricordano i grandi musei americani; sarà che è un peccato non vederlo più nelle calde e accoglienti sale di quel neoclassicismo napoleonico setteottocentesco dal parquet scricchiolante e gli arredi Stile Impero, ma dubito che la nuova location sarà migliore di questa.
Non è comprensibile una così netta separazione tra Ottocento e Novecento: la pittura dei primissimi anni del XX secolo pur con le sue innovazioni e sperimentazioni è diretta conseguenza ed evoluzione del gusto e della maniera fineottocentesca. Vedremo come si presenterà il cammino dei lavoratori nel nuovo museo. Loro sono già in sciopero.
Incomincio così la mia visita e non posso non notare e ribadire con tutta la forza la vergognosa scelta dei cartellini identificativi di cui già avevo scritto l’anno scorso a proposito della mostra sul Longoni. Ogni volta non riesco a capacitarmi di questa folle decisione che non giova a nessuno (concordano la maggior parte dei visitatori viste le lamentele e le richieste conclamate sul libro delle note).
Osservo così che sono tornati per ogni sala dei cartelli con riprodotte in miniatura le opere con relativa didascalia stile anni ’90 (mi spiegano per le troppe richieste della gente). Hanno provato con gli opuscoli in prestito consegnati all’ingresso ma la trovata ha fallito dato che i turisti “se le intascavano“.
Si riprova con degli sciagurati cartelli i quali oltre ad essere poco comprensibili necessitano di fare avanti-indietro opera-didascalia un centinaio di volte: scomodissimi e quasi inutili. Da annotare che tra i pochi visitatori erano presenti una coppia di giovani tedeschi e un paio di signore anziane, tra le varie difficoltà di lingua e di vista non penso che la nuova soluzione sia servita qualcosa a loro.
Oltre che mettere nella maniera più determinata le targhette esplicative chiare e complete servirebbe una precisa e accurata spiegazione magari accompagnata ad un approfondimento storico e del contesto ambientale sullo sviluppo delle varie Scuole Ottocentesche e sulla maniera dei diversi artisti; un percorso espositivo all’altezza di una così bella raccolta di capolavori per far conoscere, interessare ed amare quest’arte senza sbatterla lì nell’anarchia più assoluta. Il fautore delle scelte sembra dirci: “Toh! Prendete! Guardate e cercate di capire e scovare qualcosa“. Che senso ha?
Entro. Mi accoglie alla mia destra la cantante lirica Matilde Juva Branca ritratta nella penombra di una stanza da… cartellino scomparso. Hayez? Sì, Francesco Hayez. Sempre nella prima sala (Sala XII) vedo la Contessina Antonietta Negroni Prati Morosini sempre di Hayez posta in parallelo con se stessa ma cresciuta, più grande di 20 anni e ormai Contessa, ma sembra abbia perso l’identità. Un excursus alla Sala XIII con una selva di ritratti uno sopra l’altro, tra cui un Piccio, degli Eliseo Sala e Carlo Arienti, un po’ arruffati qua e là senza ordine e logica.
Dopo la meravigliosa Sala da Ballo, trionfo di decorazioni a stucco dorate, eccomi alla Sala XVI, “Il Sentimento Romantico“: una moltitudine di quadri, due dei quali sopra delle porte troppo alti per esser apprezzati decentemente (la Traversata in Laguna di Mosè Bianchi e la Scena Adriatica di Michetti carica di luce): la seminuda Cleopatra anonima sempre di Mosè Bianchi (se ne riconosce la firma rossa che risalta M.B.), e quella struggente di Previati, pare proprio Cleopatra. Il grande (258 x 204cm) Ius Primae Noctis di Ferragutti lo si può anche questo riconoscere dalla firma in corsivo sulla sinistra. I cinque Faruffini? Le statue al centro della sala? Senza nome.
Continuo la mia visita e giungo alla sontuosa Sala da Pranzo celebre per l’affresco del Parnaso con Apollo e le nove Muse, qui l’apoteosi di Appiani e quella della maldestria: l’affresco è al centro del soffitto e non si vede nessun cartello, targhetta, freccia o didascalia che ci dica che c’è qualcosa sopra le nostre teste (Certo! Non ci sono opere esposte), chiunque ha il diritto di tirare avanti: nulla di importante.
Sala XVIII – Anticamera della Sala da Pranzo o del Parnaso: due tele di Longoni, una identificata (Natura morta con fiaschi e gamberi), l’altra (Cocomeri e Poponi del 1885) è da intuire data la vicinanza. La sala dei fratelli Induno è a posto, poi l’Oriente e alla Sala XXI una carrellata di Piccio e le vaporose pennellate scapigliate con di fronte il mucchio di gessi di Giuseppe Grandi, anche qui nulla da dire. Sarà perchè il movimento nasce a Milano, orgoglio lombardo. Quel meridionale di Gemito infatti col suo Pescatore nella sala adiacente ha solo l’etichetta in braille.
Lo Studio di Zandomeneghi e la Treccia Bionda di Boldini? Non pervenuti. Immigrati italiani in Francia, avranno fatto poi così male? Così ancora per il Ritratto di Luigi De Micheli di Gola del 1900 anonimo.
Proseguo. Ecco la sala tutta blu del Previati e ci risiamo: la filamentosa linea musicale, le visioni e i sogni infiniti senza spiegazione. Penso che il motivo dell’azzardata scelta sia nella volontà di proseguire e risaltare la tradizione esplicitamente simbolista del pittore a distanza di più di un secolo.
Inizia la stagione divisionista nel semi anonimato: un Longoni nascosto nell’angolo e la parete sfondo azzurro dedicata al grande Poema Panteista del maestro, mercante e collezionista De Grubicy, figura troppo importante nel panorama artistico della seconda metà dell’Ottocento per essere menzionata.
Per fortuna che – Sala XXV – il sorriso furbesco del giovane birbante In riposo di Luigi Secchi ce l’ha scritto direttamente sul bronzo chi è e di chi è.
La Milano operaia, Angelo Morbelli e i suoi dipinti (piccoli punti e lunghi filamenti di colore), il suo studio all’interno del Pio Albergo Trivulzio di Milano. Non se ne sa nulla.
Poco più avanti la sfilza importantissima di sculture in bronzo e cera di Medardo Rosso nel corridoio-sala XXVII. Chi gli ha visti i cartellini. “Noi non siamo che scherzi di luce” diceva l’artista, qui sembre tutto uno scherzo. “Il solo grande scultore moderno” dalle parole di Boccioni. Nemmeno una citazione.
I Segantini almeno sono a posto già di loro, poi il Cortile e infine la sala Ex Quarto Stato, di questa ne ho già parlato: un vuoto tremendo, un tuffo al cuore; pare che al posto della marcia dei lavoratori in sciopero arrivino tre tele di notevole spessore. E pensare che ci son ancora tre magazzini di opere che aspettano di mettersi in bella mostra.
Aspettando l’esito del concorso per la guida del Museo del ‘900 tra cui spicca il nome della conservatrice della GAM Maria Fratelli, responsabile delle sensazionali scelte, nella speranza che cambi qualcosa.
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