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Tancredi. Ode al genio italico

 

 

Chi potrebbe scrivere ancora qualcosa di nuovo su Tancredi? Nessuno. E’ nella realtà delle cose che dopo tutti questi anni di studi approfonditi, dopo la straordinaria mostra antologica di Feltre a lui dedicata da Luca Massimo Barbero – chiusa or non è molto – alla Galleria d’Arte Moderna Carlo Rizzarda, la penna illanguidisce; ma l’occhio, no. ‘Ché, di Tancredi, non ne ha mai abbastanza.

Matteo Lampertico, gallerista di qualità (le cui altrettanto centellinate mostre deliziano i poveri milanesi, ormai quasi del tutto assuefatti alla pochezza culturale della Città, in attesa di una resurrezione che tutti sperano prossima, ma che stenta ancora a definirsi, come i lettori di Arslife sanno bene), stupisce il pubblico con questa magnifica rassegna dedicata a un periodo particolarmente vivo e fecondo del genio tancrediano, quello che negli anni 1955-1957 vede fiorire e definitivamente metabolizzare le lezioni apprese in chiave personalissima dello Spazialismo migliore e dell’Espressionismo Astratto statunitense, assorbito àuspice Peggy Guggenheim, che proprio in questi anni promuoverà l’unica sua mostra newyorkese (1958) presso la galleria Saidenberg.

Dico subito: mi sento di affermare, senza tema di smentita, che questa è certamente la migliore rassegna, pubblica o privata che sia, di arte visiva (pittura!) a Milano dell’ultimo anno e forse anche più.

Il “colpaccio” di questa esposizione sublime a Via Montebello (composta in totale di 4 carte, di cui due precedenti al ’55, e 10 tele, di cui una del ‘60) è l’aver portato agli occhi dell’avido pubblico italiano e internazionale ben sette opere, ritrovate proprio dal tenace gallerista, che fecero parte, quasi senza più dubbio, di quell’unica rassegna oltreoceano, il cui catalogo, ambiguo e poco dettagliato, non consentiva reperire sino a poco tempo fa informazioni certe. Di queste, tre costituirono già un prestito per l’esposizione feltrina, mentre quattro sono inedite.

La scoperta dell’eccelso nucleo è di qualche anno fa, ma riceve recentemente il complesso imprimatur del comitato che presiede alla tutela dell’opera tancrediana (cui si fa dipendere il catalogo generale del 1997), perché non fu semplice far comprendere, dati alla mano, che il Nostro deve pur aver avuto una stagione prodigiosa aldilà d’Oceano. E questi lavori in particolare riprendono in pieno le poetiche percorse da Tancredi negli anni precedenti l’informale, secondo quel canone di pulizia meticolosa, quella visionarietà composta ma febbrile e quell’ossessivo perfezionismo tecnico che gli sono tipici e inconfondibili. Del resto, Peggy non era donna che restava a lungo a contemplare rapita le languide lagune venete anche se in compagnia di un aitante giovanotto…

La capacità propria del genio che riesce a offrire sempre nuove argomentazioni con la semplice esposizione delle sue fatiche non si esaurisce neppure con la dettagliata e interessante analisi dello studioso Francesco Tedeschi che qui disserta ampiamente sul prezioso trouvaille, comparato con le maggiori prove del medesimo periodo ora alla Fondazione Guggenheim di Ven ezia e al Museo di Brooklyn a New York, anch’esse doni di Peggy, facendo confluire queste scelte specifiche di Tancredi per la sua prima mostra americana con due tele che chiudono questo periodo travolgente e molto breve (Senza Titolo, di proprietà Guggenheim del 1957, e Spazio, acqua, natura, spettacolo del 1958 del Brooklyn Museum) e che si potrebbero dire composte con la medesima tavolozza di acquarelli utilizzata per la serie dei “sette Saidenberg”.

Un’unità di intenti assai consapevole, come se il Feltrino avesse potuto argomentare: “seleziono ciò che per me è quanto di più differente dalle corde dell’Espressionismo astratto pollockiano per dimostrare a New York dove conduce una rivisitazione efficace e nuova della cultura europea attraverso l’arte contemporanea”.

E’ da un po’ di tempo che pretenderei una rilettura degli “addebiti” statunitensi nei confronti dell’Europa del XX e XXI secolo: un nodo irrisolto, e che non mi ha mai convinto, nella tesi opposta (indipendenza e originalità dell’arte statunitense da quella europea dal secondo dopoguerra e presunta dipendenza culturale dell’Europa nei confronti degli U.S.A., sino a una decisa, dichiarata ripresa delle relazioni esplicite America/Europa ai nostri giorni).

Ma ora entro in galleria, finalmente: è la vernice.

Un’esplosione di colori mi s-travolge. Le tele sono tante e sono tutte, nessuna esclusa, superbe. E se “superbe” non bastasse, prego utilizzare qualche lacerto mnemonico recuperato da un corpus dannunziano, per i più inclini ad una sconsiderata ammirazione sensuale per la perfezione.

Tutto si gioca, per il gallerista, questa prima sera. La piccola folla è ammaliata. L’impatto è folgorante, un coup-de-scéne da lasciare letteralmente senza fiato.

E’ più che evidente che la pittura italiana del ‘900 (l’arte italiana del ‘900?) è ai primi posti dell’arte mondiale.

E prego non spaccare ora il capello in quattro con le affermazioni di genere: “Tancredi, qui, non era poi così ‘italiano’”, “Per molti anni ha lavorato da Peggy nello studio di Ca’ Venier dove erano ricoverati i Pollock più strabilianti che uomo potesse vedere (e questa è la loro diretta influenza)…” e così via, perché ci inerpichiamo in una poco proficua strada che tende sempre a denigrare il “nostro” in favore dell’ “altrui” – quanto ha dovuto sopportare Morandi per non essere considerato il seguace affannato di Cézanne?

Peraltro, queste tesi possono essere con estrema facilità confutate dalla semplice osservazione delle opere.

Come già accennai, le tele e le carte dimostrano in modo più che eloquente la potenza icastica – rispetto alla coeva pittura statunitense – del gesto colto e arcaico di chi rielabora con enorme sapienza e stringente perfezione formale la cultura europea e italiana (veneta!) in particolare, con i verdi-erba-lavata e gli azzurri-splendore di Cima da Conegliano, con i blu petroliferi e notturni di Gino Rossi, con i rosati-aranciati e i fuchsia pallidi e spenti dei Chiaristi veneti (Semeghini in particolare, e le sue zucche dal colore identico a certe pennellate nelle Aspirazioni tancrediane fra l’altro già votate all’America).

Non si creda a una capitis deminutio, tutt’altro. Tancredi non dimentica le tele pollockiane allestite con profusione nello studio dove lavorava ogni giorno.

Ma la cosciente ripresa di stilemi approfonditi in modo “bulimico” in giovanissima età, quando il Nostro esperisce freneticamente – si può dire – qualsiasi soluzione formale dalla fine del XIX secolo sino all’arte fra le due Guerre e prima dei salti verso l’astrazione dei primissimi anni ’50, riemerge in questo periodo proprio perché – forse – Tancredi sente più impellente la necessità di delineare la sua proposta in un contesto già strutturato, mobile ed elevatissimo come quello dell’arte newyorkese della quinta decina del secolo.

Ciò deriva dall’importante antefatto per cui non si può dimenticare che egli, nella Venezia del 1946 plaudente all’apertura della galleria milanese di Carlo Cardazzo e (più in sordina, per il momento) all’arrivo di Peggy Guggenheim in laguna, assisteva e si pasceva di un formidabile impulso alla sprovincializzazione dell’arte italiana del secondo dopoguerra. Poi, nel ‘50 e ‘51, sarà a Roma e avrà un intenso contatto con Forma1 di cui assorbirà il manifesto contrario a ogni “influenza decadente ed espressionistica”, ma anche le complesse riflessioni degli esegeti che tentavano di ricostruire un filo della memoria dell’arte italiana, manchevole per alcuni, eccezion fatta per l’avventura futurista, di un legame profondo che la unisse al cubismo e, quindi, alla tradizione europea post-impressionistica.

La pennellata inconfondibile parte da una “terapia” di giustapposizioni, come una complessa tessitura sopra un orditoio immaginario, ma ben armato: l’ordito, naturalmente, giunge prima ed è preparato proprio come per accogliere la trama. Il passo è sapiente, gli intervalli dosati con intenzione, l’automatismo del gesto (metaforico e artistico) talmente interiorizzato da essere assurto a regola.

In successivi passaggi, la trama si fa sempre più complessa sino a svelare il punto focale di una prospettiva che lascia meravigliati, ma che è una sorta di firma nella firma: sembra realmente la ripresa del punto di vista “da sotto in su” tipico dei grandi affreschi a soffitto del periodo Barocco. Esemplare, in questo senso è proprio il grande soffitto dipinto per il ristorante La Colomba di Venezia non a caso nel 1958, ora al MART di Rovereto ed esposto a Feltre. L’occhio sprofonda nella vertigine.

La scelta dei colori puri (che delineano inconsapevolmente nuove forme) riesce – come voleva Munari – a costruire un “mondo armonioso” in cui l’Uomo può sperare di abitare.

Da Lampertico queste perverse raffinatezze ottiche sono particolarmente evidenti nelle due carte “Saidenberg” del 1955 (di rarissima, unica, beltà quella di dimensione cm. 73×107), nella tela Senza Titolo del 1955 di cm. 180×220 e nelle tele “Saidenberg”, sempre Senza Titolo, del 1956 (cm. 120×140) e del 1956-57 (cm. 130×160). Ma in tutta la sala il vortice che indica sempre un punto focale da cui dipartire l’eccentricità del passo per scagliarsi con furore verso un bersaglio immaginario rapisce la vista e i sensi.

Ciò che colpisce il pubblico è la contrazione nervosa della pennellata, compostissima e trattenuta, affinché il risultato sia libero e sfrenato. Un prigioniero del razionalismo estremo al servizio di un ideale di libertà pura.

Il manicheo/cartesiano Tancredi grida al mondo la sua inevitabilità di protagonista. Peggy aveva visto giusto, come altri non seppero. Noi ora possiamo solo assentire con entusiasmo e ringraziare l’eccentrica signora ebrea per la sua costanza e fedeltà nei confronti dell’irrequieto pittore feltrino.

Ma il nostro dovere è – con altri grandi del Novecento italiano che ancora attendono – ridare Tancredi al Mondo e ricostruire per tutti la genialità del nostro Secolo breve. Seppellire la nostra innata volontà di demolizione o commiserazione (il che è ancor peggio della rabbia distruttrice) di quanto abbiamo fatto di meglio attraverso il lavoro puntuto e pedante, ma preziosissimo e intelligente dei pochi veri critici d’arte (storici dell’arte) che ancora possono davvero sapere e insegnare.

Teniamoci d’acconto, oltre Tancredi e i suoi/nostri amici artisti, i Lampertico (rarissimi, come le pepite nell’Adda) e i Tedeschi, Barbero, Fergonzi e tutti coloro che non salgono alla ribalta per baruffe da pollaio, ma lavorano con pazienza per ricostruire l’onore patrio perduto, che – in genere – così come si devasta con facilità a partire dalla negazione della cultura, dalla cultura riprende forma perfetta e inattaccabile.

Dedicato agli “amici di Feltre”, in particolare a Federica, che l’altra sera non poté essere dei nostri

*Senza titolo, 1955, pastelli e tempera su carta, cm 73×104. Provenienza: Saidenberg Gallery, New York. Esposizioni: 1958, Tancredi, Saidenberg Gallery, New York

 

 

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INFORMAZIONI UTILI:

Tancredi: natura e spazio. Opere dal 1955 al 1957

A cura di: Francesco Tedeschi
Dove: Matteo Lampertico – Arte Antica e Moderna, Via Montebello 30, Milano 20121
Apertura e Orari: 28 ottobre – 23 dicembre 2011 da martedì a sabato, ore 10.30/13.30 e 15/19. Chiuso domenica. Ingresso libero.
Catalogo: Silvana Editoriale con testo di Francesco Tedeschi
Informazioni:
Matteo Lampertico – Arte Antica e Moderna, tel. 02 36 58 65 47 fax 02 36 58 65 48
info@matteolampertico.it    www.matteolampertico.it

 

 

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