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Jeff Wall/Daniel Canogar

L’ESTETICA DEL DISASTRO

 


J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, Lost, 2004 /2010

Jeff Wall,The Vampires’ Picnic 1991 ,Transparency in lightbox 229 x 335 cm © Jeff Wall

Dopo l’attacco dell’11 settembre  non è cambiato solo il mondo economico, sociale e politico. Nell’immaginario degli artisti quella data ha rappresentato l’ingresso di una nuova visione della realtà, cupa, pessimistica, catastrofica. E’ iniziata la guerra e la crisi l’ha seguita di pari passo, un intero mondo di certezze sembra solo un ricordo lontano per la generazione di artisti che opera negli anni dieci del millennio. Interesse economico e inflazione: i media scoprono la crisi finanziaria nel 2008. Dopo tanti scricchiolii, lo squarcio diventa manifesto: è impossibile occultare lo scollamento di quell’osmosi – che è equivoco – tra principi democratici e liberismo sfrenato. Il mercato immobiliare è già crollato con la crisi dei subprime; ottimismo, investimenti e consumi seguono a ruota. Il divario tra l’arte prima del 2000 e quella che segue non potrebbe essere più evidente. Siamo sull’orlo del disastro senza che lo si possa situare nell’avvenire, siamo sotto la sua minaccia e quindi impossibilitati a fermarci a qualcosa di definitivo, di pensare quindi a qualcosa di determinato. In questo spazio di “Opacità malefica” (come l’avrebbe definito Baudelaire) si è rotto ogni rapporto tanto con se stessi quanto con l’altro. Regna la differenza paradossale, definitiva e solenne e l’arte conquista l’autenticità del proprio essere disgiungendosi da tutto ciò che è cultura, civiltà e società. I lavori di alcuni artisti delineano situazioni ai “confini della realtà”,appaiono come visioni di una catastrofe appena avvenuta o in procinto di accadere, inevitabile epilogo di un’oscura premessa, oscillano in questa spazio sospeso dove la tensione si fa palpabile.

 


Jeff Wall Visit Afghanistan

Jeff Wall è rinomato per le fotografie di grande formato che riproducono scene di paesaggi urbani ed elaborano tutta la complessità e l’ambivalenza del 900.  Negli anni ’70  usa per primo i light box (cornici retroilluminate), così da trasformare le proprie immagini, da lui stesso definite “cinematografiche”, in luminosi e potenti centri d’attenzione.  Come ogni grande ricercatore non segue un’unica linea di indagine ma accompagna le proprie fotografie con una profonda riflessione sull’immagine, sul suo significato storico e attuale. Il realismo di Wall è solo apparente perché coglie nella realtà i problemi della scena teatrale, cioè dell’immagine in movimento e delle sue implicazioni con il cinema e la fotografia. Lungi dall’essere arbitrarie, tali messe in scena si configurano sempre come il risultato di una precisa strategia volta a riflettere sull’enigma della realtà. Cogliere la dimensione misteriosa delle cose – mostrare il mondo in cui viviamo  come se fosse inconsapevole di sé è una visione  straniante, come bloccata in una situazione enigmatica e sospesa tra realtà e finzione. Egli infatti cita la storia della pittura miscelandola con la quotidianità contemporanea, con la vita banale di uno qualunque dei nostri giorni . La sua è una sorta di operazione doppia: da un lato rivitalizza il passato dell’arte riportandolo all’oggi, dall’altro si serve di immagini storiche per spingerci a osservare con maggior attenzione situazioni quotidiane che abitualmente non sono trattenute dal nostro sguardo. Possiamo vederne un esempio in The Destroyed Room, un lavoro che evoca il celebre dipinto di Delacroix “La Morte di Sardanapalo”(1837)


Jeff Wall, The Destroyed Room, 239×216 cm. Courtesy collezione dell’artista.


La fotografia muta nel momento stesso in cui inizia il processo creativo e nella quale la variabile tempo assume valore solo quando il progetto è finito. In “Vampire’s Picnic” Wall mostra un disastro già avvenuto, le rovine urbane emergono sotto forma di relitti e frammenti in una natura selvaggia che ha preso il sopravvento e  i cui significati affiorano  solo dopo una lunga e attenta osservazione. Come nella serie televisiva LOST, gli attori messi in scena si confondono con gli attori della vita creando una visione surreale del mondo che rende fragili le certezze dell’agire umano nel nostro tempo. Sia in LOST che nella foto di  Wall sorge una nuova immagine delle cose che, pur segnate dalla labilità dell’apparenza, lascia intravvedere il balenare intermittente di una verità inaccessibile e ultraterrena. In LOST l’sola è la metafora stessa della redenzione, l’unico riscatto possibile nel tempo della precarietà a cui non sembra esservi alternativa. Tutto si deve riconnettere in un nuovo orizzonte di senso e le colpe commesse dai protagonisti possono essere rimesse proprio grazie al disastro aereo di cui sono state vittime. Per assurdo, il set fotografico realizzato da Wall  diventa l’autoritratto allo specchio  della crisi americana: inspiegabili anomalie sgretolano e divorano la fabbrica dello spazio e del tempo, l’impalcatura stessa della società è minacciata dal collasso e dal disastro che disorienta, subitaneità impercettibile, come una risoluzione irresistibile o imprevista che ci giunge al di là di ogni decisione.

Anche Daniel Canogar intende rappresentare la realtà quale finzione scenica per riproporre il potere evocativo e distorsivo dei mezzi di comunicazione nell’era del cinema e della televisione.  Guardando le sue foto si ha la sensazione di rivivere qualche avvenimento catastrofico con immagini mai viste: corpi che galleggiano tra i relitti come dopo un disastro aereo o uno tsunami, o ancora corpi impigliati in una gigantesca rete che pendono dai rami di un albero. Canogar utilizza il materiale elettronico dismesso per la realizzazione delle sue opere: fotografie, video, sculture e installazioni che costruiscono un ritratto fedele di quest’epoca. Trovando l’ispirazione nell’archeologia dei new media, Canogar riporta i morti alla vita, rivelandone i segreti. “Vortex (Vortice)” è una foto murale in grande scala che presenta un gruppo di figure umane galleggianti in acqua in mezzo a una profusione di detriti di plastica. Dalla complessità dei dettagli dell’immagine emerge l’espressività individuale delle figure che sembrano essere stati travolte da un accumulo di spazzatura e rifiuti che li circonda e contro il quale ciascuno, senza l’aiuto di tutto il resto, sembra essere in lotta per la sopravvivenza.

 


Daniel Canogar, “Vortex 1”, 2010 Stampa al pigmento montata su alluminio 110 x 200 cm, Courtesy Galleria Mimmo Scognamiglio

Il Giudizio Universale è già qui, già realizzato in arte e presentato sotto i nostri occhi come qualcosa a cui inevitabilmente andremo incontro: è lo spettacolo definitivo della nostra morte cristallizzata. “Uno spettacolo grandioso, ovunque” ,come dice Benjamin,” l’umanità è diventata un oggetto di contemplazione per se stessa. La sua autoestraniazione ha raggiunto un grado che le permette di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine” (“L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, 2000, Piccola Biblioteca Einaudi, pg 110, 111). Ed è vero che tutto il sistema dell’economia politica diventa oggi per noi questa finalità senza senso, questa vertigine estetica della produttività che è soltanto vertigine contrastata del suo stesso crollo. Siamo tutti vittime della produzione diventata spettacolo, del godimento estetico della riproduzione delirante e non riusciamo a staccarcene perché in tutto lo spettacolo c’è l’imminenza della catastrofe.

 

Daniel Canogar, “Enredos I”, 2008
Stampa fotografica su carta Kodak-Endura
montata su alluminio
cm. 100 x 150 Courtesy Galleria Mimmo Scognamiglio

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