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Hirst. Solo un pagliaccio che ha paura di morire?

Damien Hirst è alla Tate, fino al settembre prossimo. Su questo artista e su questa mostra hanno preso posizione tutti, ma proprio tutti. Un po’ come quando gioca l’Italia, tutti allenatori. Non capisco come mai, di fronte ad un concettuale o ad un pittore astratto molti si sentano in difetto nel giudicare, e sparino la solita: “non so… non credo di avere gli strumenti per giudicare… io non la capisco l’arte contemporanea”. Però, invece, su Damien Hirst un’opinione ce l’abbiamo tutti. Forse perché se diventi famoso come Madonna è così. Di certo, per mettere le cose nero su bianco, occorre ricordare che dopo l’asta di Sotheby’s del 2008 è diventato l’artista più ricco del pianeta. Oggi, forse, è un po’ meno ricco (le sue opere alle aste non stanno passando più, e si teme che il mercato non risponda neanche alla mostra globale salva-Hirst fatta da Gagosian nei primi mesi del 2012). Anyways, come dice il mio amico di Frieze a Londra. Cito questo magazine perché assieme ad Artforum è certamente il più attendibile a livello mondiale. Stamattina gli ho fatto una chiamata, così, giusto per sapere che ne pensava di questa mostra, volevo conoscere il pensiero di chi, di solito, non sbaglia. E lui mi ha indirizzato al pezzo di Jennifer Higgie (lo trovate linkato sotto), co-editor. Lo leggo, e mi pare di non aver letto nulla, alle solite. Lo so già che in mostra ci sono i medicinali, le pillole, la testa di bue con le mosche attorno che puzzano fin fuori Londra, lo squalo, il teschio coi diamanti. Lo sappiamo già. Quello che ci interessa è formare un’opinione in merito. Lo richiamo. Beh, dopo un po’ di pressing, gli tiro fuori quello che volete sentire: “Awful”, fa schifo. Alleluja. Insomma, ai piani alti della rivista più snob (ma badate anche più seria) la pensano così, che è un artista che si ripete e che da 5 o 6 anni pensa solo ai soldi, che fa tanto marketing, e che oltre alla paura della morte ora ha pure paura che le sue opere presto non valgano più. Ha fatto la fine di Robbie Williams (nell’immaginario dell’intellettuale inglese, s’intende). Come Berlusconi, che il problema dei soldi da cinquant’anni a questa parte non lo conosce, e ha solo il problema del potere, Hirst ha il problema dell’essere accettato, apprezzato, amato, in vita, e nei libri di storia dell’arte del futuro. Chiosando: io, che prevedo un salto a Londra prima di settembre (non ci vado alle Olimpiadi, non mi piace il lancio del giavellotto) alla Tate ci voglio passare. Voglio salutarlo perché ricordo ancora una bella intervista che Damien Hirst fece anni fa con FlashArt, dove raccontava di quanto fosse insicuro sul suo lavoro, di come lasciasse abbandonate sotto casa alcune opere di notte, perché: “se qualcuno me le frega, allora vuol dire che piacciono”. Ci vado perché il memento mori di Cagnacci io lo rivedo bene in tante sue opere, ci vado perché non mi importa che l’artista sia per forza un artigiano e che se le faccia lui le opere. Ci vado, perché anche la mia paura più grande è quella della morte. Ci vado, perché Damien Hirst, come Morrison, è una persona sensibile, ma con l’animo di un pagliaccio, capace di mandare in vacca tutto quando meno te l’aspetti.

 

http://www.frieze.com/issue/review/damien-hirst/

 

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4 Commenti

  • Concordo con quanto scritto. La fama eccessiva e autoalimentata atterrò tutti i grandi (Dalì ne è un esempio, anche se non pare). Ma ciò che importa è ciò che vale e Hirst ha fatto scuola, non con gli insopportabili pois e con i teschi di diamante, forse non con la furbata dell’asta pilotata (ma pilotata da chi? è proprio vero che fu Hirst a decidere per quella mossa?), ma i suoi animali in formaldeide sono uno straordinario riassunto filosofico della fine dello scorso millennio, così come (e di più) lo sono state opere come quelle della serie Waiting for inspiration (del 1994).
    Siamo portati a distruggere sempre ciò che creiamo, idolatriamo tanto quanto insultiamo poi. C’è un sentimento di compiaciuta crudeltà fra gli “invisibili” nei confronti dei “visibili”. Indi, in genere c’è un ulteriore riflesso di “compassione” (che si avvicina al “compatire” più che al “comprendere”) che ci riporta in controtendenza a essere magnanimi nei confronti di chi si è perduto nel labirinto dei soldi, della fama, della notorietà acritica e smodata.
    La realtà dei fatti (civile, politica) di questi giorni ne sta dando conto in tutto il globo – da noi in maniera macroscopica, per non dire strutturale -, ma basta rileggere a caso qualche pagina di storia per capire di che pasta siamo fatti, noi umani (dagli Scipioni in giù).
    E’ colpa nostra se Hirst è un pagliaccio, ma è merito suo se è un artista. E, quando – fra mille anni – appariranno i coccodrilli, rimarrà solo il buono, il meritevole, l’arte che, sotto la sua guida anche di critico e promotore – ha detronizzato il potere immarcescibile della contemporaneità perennemente giovane degli USA (che da quel momento non si sono più veramente ripresi) e ha ridato vigore ad un Europa che poteva confidare, sino ad allora, solo sul Tedesco, al più (generalizzo e spero mi si capisca).
    Hirst è, forse, il primo vero artista dell’Europa Unita, con ogni incongruenza (a partire dalla stessa presunta unità dell’Europa) che questo comporta.

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