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De Rouille et d’os

Dalla rassegna “Cannes e Dintorni”…

Audiard non perde le buone vecchie abitudini e, in occasione del Festival di Cannes, aggiunge un nuovo capitolo al suo Bestiario. Il regista francese non offre tanto tipologie umane inedite, quanto sfumature inesplorate di personaggi borderline già presenti da tempo nell’universo cinematografico. E ancora una volta lo fa con maestria, con quello stile che vien da battezzare “schiaffo/carezza”, perché è capace di ammaccare come un colpo in pieno viso, ma anche di depositare una dolcezza paradossale, quasi quanto un cucchiaio di miele dopo un eccesso di tosse.

Il pugile problematico con figlio a carico e la triste addestratrice di cetacei calcano di nuovo il grande schermo. Fin qui nulla di che. Se non fosse per due piccoli grandi particolari: il pugile e l’addestratrice non sono altri che Matthias Schoenaerts e Marion Cotillard e la macchina da presa non risparmia nulla, catapultando lo spettatore in un medioevo sentimentale acuminato.

Audiard annienta quasi del tutto dialoghi elaborati e filosofici, lasciando ampio spazio ai corpi e al loro linguaggio forte, animalesco, a tratti primordiale. Tutti elementi, questi, che riscattano la trama da una sua iniziale prevedibilità e che permettono agli attori di mettere in mostra in toto le loro straordinarie capacità.

Ali arriva ad Antibes con il figlioletto Sam e si stabilisce dalla sorella che non vede da anni. Nonostante coltivi la passione per la Boxe, deve guadagnarsi da vivere e campare il figlio con cui fatica ad avere un rapporto normale. Durante una serata in discoteca, in cui lavora come buttafuori, aiuta Steph a tornare a casa dopo essere stata colpita durante una rissa. La ragazza non cede alle sue avances ma conserva il suo numero di telefono. Contatto, questo, che rispolvera dopo l’incidente con l’orca, che l’ha privata delle gambe. Tra i due nasce un rapporto strambo, una via di mezzo tra l’amicizia e l’assistenza sociale, il quale però, non fatica a trasformarsi in qualcosa di carnale. Dall’attrito dei loro corpi prende vita la caduta, seguita dalla rinascita dei due protagonisti.

Fisicità è la parola chiave di questo film, perché il linguaggio del corpo trasuda da ogni scena e da ogni inquadratura, sia che immortali un momento felice o drammatico. Si tratta, però, di una fisicità violenta e molto spesso brutale, che il regista evita accuratamente di censurare. Audiard ci scodella il  brutto della vita e come un maestro severo, tuttavia magnanimo, ci spinge ad ingerire il boccone amaro, riservandoci però una ricompensa degna dello sforzo.  

Un esempio su tutti è la ripresa insistente ai moncherini di Steph. Il vuoto lasciato dalle gambe e le cuciture non lasciano spazio a seconde possibilità. Un’immagine impressionante, eloquente, dispensatrice di tristezza, che però, viene rimpiazzata dall’incontro postumo con la “balena”, che si rivela privo di risentimento. Una di fronte all’altra, circondate dall’azzurro dell’acqua, si riconoscono come due vecchie amiche e manifestano la nostalgia e il rimpianto per ciò che poteva essere ma che non è stato, tutto per una casualità. Ecco, solo la scena di questo incontro vale l’intero importo del biglietto.

Come ha affermato Mereghetti alla presentazione della rassegna “Cannes e Dintorni”, di sicuro non è il miglior Audiard. In particolare per i continui colpi di scena che animano la pellicola e che, secondo il critico, ne costituiscono il motore. In effetti il buon Mereghetti non ha tutti i torti. Si può dire che la suspence increspi un po’ troppo l’andamento della storia, traendo in inganno lo spettatore, che, a volte, si trova in difficoltà nel comprendere quando la qualità di un passaggio o di un dialogo sia merito o meno del regista e degli attori.

Ad ogni modo, sebbene non sia una di quelle pellicole impegnative e contorte, implica un dispendio emotivo non indifferente e merita assolutamente di essere vista. In Francia è già campione di incassi e al Festival ha riscosso la sua buona dose di consensi.

La gestualità, gli sguardi e il corpo in generale dominano la pellicola e dimostrano che anche dalla violenza, sia essa fisica o morale, può nascere qualcosa di buono, strampalato, ma positivo. E diffidate del mito della balena, “Ruggine e ossa” è molto di più.

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