Non sono esattamente sicura che Alexander Calder avrebbe gradito l’allestimento da Ordovas. Alla galleria di Saville Row espongono fino al 3 agosto i suoi lavori realizzati nei tre mesi che viaggiò con la moglie in India. Le opere sono bellissime e nella saletta al piano di sotto perfettamente illuminate, tanto che producono affascinanti ombre sulle pareti. Quello che manca è il movimento dei mobile, loro che sono fatti per cambiare continuamente, per essere appunto “mobili”, sono quasi fermi. Come al solito quando incontro un mobile di Calder non resisto alla tentazione di soffiarci contro per farlo girare su se stesso. Nemmeno dalla Ordovas ci rinuncio, davanti agli occhi un po’ straniti di una coppia che è nella stanzetta insieme a me. Credo che Calder, che amava giocare e tenere le finestre sempre aperte, mi avrebbe approvato. Comunque la mostra è bellissima, davvero. Nessuna delle opere è in vendita e nel catalogo sono tutte riportate come “collezione privata”. Beati loro, anche a me piacerebbe moltissimo averne una. E mi sarebbe anche piaciuto conoscere Calder e prestargli la mia casa perché facesse una rappresentazione del circo di fil di ferro, andarlo a trovare nel suo studio vicino a Parigi o nella fattoria che aveva comprato a Roxbury nel Connecticut.
Con ancora le costellazioni di Calder che mi girano sulla testa, esco dalla galleria di Pilar Ordovas, giro l’angolo e penso di fare un salto da Sothbey’s dove magari hanno già aperto la preview di arte contemporanea. Sebbene il cartello all’entrata dica che l’esposizione inizierà sabato 23, il gentilissimo concierge mi fa entrare comunque, avvisandomi però che solo le opere della Evening Sale sono già state appese, mentre per quelle della Day Sale c’è effettivamente da aspettare fino al giorno dopo. Poco male. Salgo le scale di moquette e vado al primo piano. Qui i preparativi fervono: sebbene già Tobias Meyer, presidente internazionale del dipartimento di arte contemporanea, sia in compagnia di Carol Vogel, bravissima giornalista di mercato dell’arte per le pagine del NYT, che lo accompagna con un block notes in mano, gli altri esperti di Sotheby’s sfrecciano da una stanza all’altra impartendo ordini millimetrici agli operai che li seguono con chiodi e martello. Ben poco resta ormai da fare, e io ho il tempo di godermi le opere in santa pace. Ce n’è per tutti i gusti: gli artisti tedeschi, i russi, gli inglesi con la serie di opere di Auerbach e quelle di Hirst, i fotografi monumentali, gli americani tra cui brillano Basquiat e Warhol, e ovviamente gli italiani con uno specchio di Piastoletto, una bella mappa di Boetti, diversi tagli di Fontana e un acrome di Manzoni. Di una cosa però sono certa: se non posso avere un Calder, vorrei avere un Cy Twombly. Tra i suoi lavori che popone Sotheby’s quello dedicato a Roma è quello che mi piace di più. È un atto di affetto che il pittore americano fa per la città che lo ha adottato e dove si è fermato per buona parte della vita. La composizione si svolge tutta attorno a un cuore disegnato in basso a sinistra, un cuore proprio come quelli che si fanno alle elementari. Spiegare un’opera di Twombly è davvero impossibile; e anche guardarla in un catalogo è praticamente inutile: per capirla e apprezzarla bisogna vederla dal vero. Esco da Sotheby’s soddisfatta: ci sono delle belle opere e sono curiosa di vedere come andrà l’asta la prossima settimana.
Fuori Londra si prepara al fine settimana. Venerdì è quasi già weekend, tanti uffici appoggiano il “casual friday” per cui gli impiegati possono andare al lavoro senza giacca né cravatta. I pub cominciano a riempirsi. Mi fermo anche io a bere una birra in un vecchio locale di St James. In TV vanno le immagini di Ascot, ma la notizia di questa giorni è la partita Italia-Inghilterra. Molti mi chiedono se Balotelli giocherà? Giocherà? Non lo so, ma intanto ho appeso la bandiera fuori dalla mia finestra perché a me, qui a Londra, mi viene davvero da sentirmi italiana.