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London journal – 24 giugno 2012

Grayson Perry
Sarah Sze

Weekend a spasso per Londra. Non so quanti chilometri a piedi e quanti con la tube ho macinato in questi ultimi due giorni. Mi sono spostata dai quartieri posh della parte ovest, a quelli in evoluzione dell’est, dal nord dove gli italiani non ci sono, al South Bank, con tutte le sue attrazioni turistiche nate negli ultimi dieci anni sulla riva del Tamigi.

Le gallerie da vedere non si contano, le mostre pubbliche costellano la mappa della città. Devo necessariamente fare delle scelte, tralasciare qualcosa, non posso vedere tutto. Decido di iniziare da dove posso arrivare a piedi: infilasi sottoterra con il tempo che sembra un bel giorno di primavera mi sembra un peccato. Conosco una via, per me quasi un passaggio segreto, che, seguendo un percorso tortuoso come in un labirinto del Settecento, so che mi può condurre verso i magazzini riconvertiti di Old Street. Mi sposto a piedi in una zona che dovrei conoscere bene, e che invece mi riserva nuove e continue sorprese. Il paesaggio cambia di continuo, le imponenti case bianche con le colonne all’entrata si alternano alle goffe case popolari di mattoni rosse; ai giardini rigogliosi di fiori colorati si intercalano villette vittoriane i cui cortili sembrano abbandonati da anni. Sinistra, destra, ancora sinistra e mi perdo nel dedalo di stradine tutte uguali. Quando finalmente, svoltando l’ennesimo angolo, mi ritrovo su una via più trafficata, mi capita di scovare il primo negozio che avessi visto in vita mia nella cui piccola stanza affacciata ad angolo sulla strada trovo un’intera giraffa imbalsamata, così come lo è una zebra, un canguro con il piccolo nel marsupio, un’aquila, un lupo, un cane e anche uno squalo bianco di almeno tre metri. Premo il naso contro la vetrina per vincere il riflesso del sole: il locale non ha un angolo libero a parte per la vecchia scrivania che si raggomitola sul retro. Mi viene da pensare che un in posto così Damien Hirst, di cui domani mi sono programmata di andare a visitare la retrospettiva alla Tate, sarebbe pazzo di gioia.

Superando il piccolo ponte sul Regent’s Canal mi ritrovo improvvisamente nella parte est della città: quello che mi circonda è tutto diverso, memoria di un passato industriale niente affatto lontano. Spingendo la pesante porticina di ferro dove per entrare viene naturale abbassare la testa e che mi ricorda la porta con cui Alice entra nel Paese delle Meraviglie, mi addentro nell’universo di Victoria Miro. Niente Stregatto né Brucaliffo ma il mondo instabile e cervellotico di Sarah Sze. La mostra è bella, lei è brava tanto che l’anno prossimo rappresenterà gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia. Le sue sculture site specific fatte di oggetti della vita quotidiana mi ricordano Tinguely. Passo alla larga da tutto: gli accrocchi, le sovrapposizioni, le colonne di bicchieri, pennelli, bottiglie, vasi e vasetti mi sembrano così precari che quasi quasi trattengo il respiro.

Grayson Perry

Usando la porta su retro che dà sul bello stagno, mi sposto nella attigua Parasol Unit, spazio pubblico in cui è ancora Victoria Miro a presentare un’artista del suo portafoglio. Salgo la stretta e lunghissima scala bianca che mi fa canticchiare Stairway to Heaven fino a riemergere nell’ampio spazio con tanto di vetrata panoramica all’ultimo piano. C’è un sacco di gente, tutti intenti a decifrare gli arazzi che l’artista inglese Grayson Perry ha riunito nella mostra The Vanity of Small Differences. Una mostra che fotografa con crudo realismo la società britannica con tutte le sue manie e i suoi patti col diavolo. Uscendo mi stupisco nel vedere i commenti per niente turbati sul guest book.

Mangio fish and chips in un ristorantino pieno di papà con i figli. Non vedo nemmeno una mamma: il sabato deve essere il loro giorno libero qui a Londra. Fa così freddo che sono costretta a infilare il maglione di lana (è il 23 giugno…) ma non demordo sull’idea di andare a dare un’occhiata a cosa sta succedendo nell’area dove tra qualche settimana si inaugureranno le Olimpiadi e dove è sorta l’Orbit, la contestatissima torre a firma di Anish Kapoor. La vedo da lontano, dall’improvvisato punto panoramico in cui già si accalcano i curiosi turisti. Che mi si dica che sarà la Tour Eiffel di Londra è davvero difficile a credersi. Così a prima vista, nel cantiere ancora aperto, la piscina progettata da Zaha Hadid è molto più bella.

Piove una patchy rain e tira un vento freddo che neanche di inverno. Torno alla base con la voglia di una cioccolata calda.

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