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La “violenza defigurata” di Pagani

 Si inaugura domenica 19 agosto 2012, alle ore 21, presso l’antico Teatro Delfino di Zuccarello la mostra personale di Alessandro Pagani  La mostra chiude la prima edizione del neonato progetto che vede impegnato lo storico borgo di Zuccarello in un programma di Residenza d’artista curato dal critico Nicola Davide Angerame.

Il Progetto di Artist in Residence di Zuccarello, nasce da una collaborazione tra la Fondazione e il critico d’arte Nicola Davide Angerame, con lo scopo di selezionare artisti professionisti emergenti e mid-career invitandoli a passare un periodo di studio e di lavoro tra le mura del Borgo Antico di Zuccarello. La storia, la bellezza e la natura di questo antico snodo di commerci ispireranno i pensieri e la ricerca che ciascun artista invitato porta avanti. Da questa interazione con il luogo, gli artisti sono chiamati a creare opere in loco. A termine di questa esperienza, viene organizzata una mostra personale dell’artista nel Teatro cittadino, curata da Nicola D. Angerame. Una delle opere sarà donata dall’artista alla Fondazione, per la nascente collezione d’arte di Zuccarello. “Questa iniziativa presa dal Comune di Zuccarello”, spiega Angerame, “si basa sulla volonta’ di offrire cultura alta ai cittadini e ai visitatori, approfittando del progetto di residence per constituire una collezione d’arte che rimarra’ nel tempo a testimonianza della lungimiranza con la quale l’Amministrazione del borgo ha saputo inserirsi in uno dei trend internazionali di maggiore successo, che stanno segnando l’attivita’ artistica e culturale delle grandi metropoli mondiali”.

Il primo artista invitato è Alessandro Pagani (Milano 1973). Per lui si tratta di rintracciare un’emozione estetica dentro un flusso di immagini che “scorrono” come un flusso di coscienza. All’interno di esso lo stile del fotorealismo accoglie l’elemento della “defigurazione” dei volti dei personaggi. La pittura di Pagani mette in scena il “rimosso” ed esalta il mostruoso, il perturbante, dentro scene che mantengono ed esaltano la tensione compositiva dei registi da lui ammirati. La mostra presenta lavori recenti e storici di Alessandro Pagani (Milano 1973), in una selezione che tratta uno dei temi fondamentali della sua poetica: la violenza.

ALESSANDRO PAGANI Untitled (Van Dyck V) – 2012 – olio su tela – 115x95cm

Ispirato dalla storia e dal paesaggio che circonda il borgo medievale, l’artista ha prodotto opere d’arte in loco e selezionato serie di opere recenti e meno recenti in linea con le ispirazioni tratte dal suo permanere in un luogo carico di suggestioni come Zuccarello. Il titolo della mostra “Nature violente” indica due tipi distinti e uguali di violenza: quella che sottende allo stato selvaggio e romantico del mondo naturale (prevalentemente montano e boschivo, i preferiti da Pagani) e quella a cui fa capo la natura umana intesa come temperamento, personalità. Pagani la ritrova nei personaggi della storia e della cultura, che diventano i protagonisti di una inquieta narratività alimentata da gallerie di volti, a volte defigurati, che ci inquietano per la loro perenne condizione di esseri minacciosi. In questa mostra si notano paesaggi immersi nelle nebbie, come il trittico intitolato Tales (2007), dove al lato di una foresta di conifere immersa nell’oscurità nebbiosa di una sera d’inverno fa capolino il ritratto di colui che è il signore di questi luoghi: l’orso. Ma non basta. Allo sguardo minaccioso che assume questo vero e proprio ritratto d’orso si affianca dal lato opposto, come in un gioco di rimandi temporali, il teschio stesso dell’orso in questione. Come a chiudere un ciclo, come se la violenza della natura non si arrestasse ma conoscesse diverse tappe, sempre più mortifere. Il senso di minaccia che trasuda da questo trittico si ritrova anche in Marat, lungo dipinmto altro trittico in cui protagonista è il bosco brumoso e ostile, luogo di misteri e di malefici, romanticamente immerso nella propria maestà ostile all’uomo, una natura che supera l’umano e diventa dimensione metafisica, dove abita la trascendenza e dove la sagoma di un antico campanile chiesastico batte il tempo alla decadenza fisica dell’uomo ranicchiato dentro una catacomba-caverna, umile avanzo di una natura che opera la distruzione senza badare alle umane vicende. In Tales (Vanitas), del 2008, Pagani stavolta mette al centro un cielo plumbeo e nemboso, gravido di tempesta, e vi introduce una figura distinta di nobiluomo europeo, colto da un dipinto di Van Dyck, che potrebbe essere il degno ritratto di un uomo della modernità, di Cartesio padre di quel razionalismo moderno di cui siamo figli. Misurato nella posa, sereno e padrone di sé, il protagonista di questa vanitas (genere atto a ricordare lo status mortale e la finitezza dell’umano) sembra padrone di una realtà che Pagani ci indica come invece tutt’altro che pacificata. I teschi, umano e animale che si vedono sul lato sinistro, stanno lì come il monito imperituro: nulla può l’eroe vandychiano contro il Tempo e la dissoluzione ch’esso porta con sé.

Il monito si rinnova nella natura violenta, questa volta dell’essere umano, in un altro trittico del 2008, The Draughtsman’s Contract, nel quale Pagani riflette sulla natura umana attraverso il capolavoro di Peter Greenaway, I misteri del giardino di Compton House, che mette al centro la malvagità femminile: ambientato nella pacifica campagna inglese, nel 1694, il film pluripremiato narra di come Mrs. Herbert, moglie di un ricco proprietario terriero, usi l’ignaro paesaggista di successo Mr. Neville per perseguire il suo piano uxoricida finalizzato alla presa del potere sulle ricchezze e i possedimenti di Compton House. Il trittico di Pagani prende in esame le figure di Mrs. Herbert, di Neville e del notaio complice della donna. Solo che a queste figure si sovrappongono l’autoritratto di Van Dyck da giovane e il ritratto che il pittore fiammingo realizza di una giovane nobildonna, tanto bella quanto fredda e impassibile come una potenziale assassina.

In dialogo con il suggestivo luogo espositivo, il teatro antico di Zuccarello, Pagani porta in mostra una serie di lavori che si presentano come un teatro delle maschere. Il grande ritratto di Murray Abraham (2009) mette in evidenza la maestria tecnica dell’artista, il quale dedica il ritratto a uno dei suoi più amati attori/personaggi. Un teatro delle maschere si impadronisce della fantasia di Pagani, che in tele come Marat o Lezione di anatomia (2007), crea un dialogo tra la pittura antica, da cui sono tratte le scene, ed il gusto post-moderno di citare il già detto per farlo diventare qualcosa d’altro. Svuotando l’interiorità di Marat o degli apprendisti medici ritratti nelle due tele in questione, Pagani ottiene una pittura di gusci vuoti, di fantasmi che attraversano l’oscurità del tempo e delle pittura per giungere a noi come personaggi di film horror, presenze inquietanti e minacciose: perturbanti. E perturbanti sono i ritratti di Aguirre (2012) e di Ilaria del Carretto (2012) che Pagani tratta secondo la tecnica della defigurazione messa a punto nelle ultime serie di dipinti. Una tecnica che usa la pittura come se fosse del vetriolo, capace di sfigurare i connotati dei personaggi, pur mantenendone i tratti distintivi, in un gioco “acrobatico” tra figurazione e astrazione, tra realismo ed espressionismo, che ammanta di una esuberante e disperata vitalità i volti dei personaggi ritratti. Pagani li sceglie tra i suoi eroi cinematografici. Aguirre (Klaus Kinski) è il protagonista dell’omonimo film di Werner Herzog, uno dei massimi interpreti della violenza della natura (anche di quella umana). Conquistadores in cerca dell’Eldorado, Aguirre è il prototipo della brama umana di ricchezza e fama. Nell’addentrarsi cocciutamente in una foresta senza fine, Aguirre perderà i suoi uomini ed infine la propria ragion, annientato dalla forza primigenia di una natura che lo domina.

ALESSANDRO PAGANI Untitled (Van Dyck III) – 2011 – olio su tela – 42×60

La defigurazione, che è un tratto originale della pittura di Pagani, nasce dal suo amore per la storia del cinema, specie quello di Serie B degli anni Settanta. Dal suo interesse/impersonificazione con il personaggio del Dr. Phibes (magistralmente interpretato da Vincent Price negli anni Settanta). Pagani, che si diverte a ritrarre un Vincent Price nelle vesti del Dottor Phibes (la proiezione del film appare sullo sfondo della mostra a dichiarare un’appartenenza: quella del pittore alla propria immaginazione de-formata da una cultura profonda del cinema horror di serie B), “trucida” i suoi personaggi proprio come fa Phibes, che per vendetta sfigura le proprie vittime dopo avere assassinate. Vicino ma lontano alla pittura di Francis Bacon, Alessandro Pagani elabora scene di film di Peter Greenaway o di Wim Wenders, defigurandole dentro contesti che restano integri e creando così magie percettive. Ma queste serie non fanno parta, per questione di spazi, di questa mostra. Si tratta comunque di dipinti carichi suspense, all’interno di uno sviluppo narrativo filmico che viene decostruito dalla pittura. Per Pagani si tratta di rintracciare un’emozione estetica dentro un flusso di immagini che “scorrono” come un flusso di coscienza. All’interno di esso lo stile del fotorealismo accoglie l’elemento della “defigurazione” dei volti dei personagg (come avviene anche per Ilaria del Carretto). La pittura di Pagani mette in scena il “rimosso” ed esalta il mostruoso, il perturbante, dentro scene che mantengono ed esaltano la tensione compositiva dei registi e dei personaggi da lui ammirati, amati e odiati. “Non direi che il cinema è evasione – dichiara Pagani – ma piuttosto una iper-realtà. Spesso mi trovo a confondere la mia memoria personale con quella cinematografica”.

Con questa pletora di mostri ed eroi, Pagani costruisce una propria narrazione, tracciando le tappe di un percorso favoloso che non ha un inizio o una fine definiti, ma è popolato dai personaggi inventati dal cinema e dalla letteratura, i quali coesistono nella memoria dell’artista come la serie dei busti degli imperatori romani nella Galleria degli Uffizi, tutti coevi come statue di marmo, malgrado in vita si siano succeduti, spesso senza mai incontrarsi.

ALESSANDO PAGANI Untiteld (Van Dyck II) – 2011 – olio su tela – 50×57

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