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Intervista a Francesca Leone

Quando i figli d’arte sono ben altro che miseri raccomandati

Ti accoglie nella sua casa romana, come si fa con un’amica di vecchia data che non vedi da tempo. Un grande sorriso, pulito e sincero. I capelli raccolti, una semplice t-shirt e una felpa scura. Lei si chiama Francesca e di cognome fa Leone. Già, proprio come Sergio, uno dei più grandi registi cinematografici di cui si ha ancora molta nostalgia. Francesca non è una regista, è una pittrice. La sua è un’arte che non prende forma in sala di montaggio, ma attraverso grandi tele, pennelli, bozzetti e colori.

Nata a Roma il 12 marzo del 1964, Francesca – dopo la parentesi all’Accademia di Belle arti, dove studia scenografia – decide di dedicarsi interamente alla pittura, laureandosi con il professore Lino Tardia alla Libera Accademia di Belle arti della Rome University of Fine arts. Nel 2007 inizia la sua attività espositiva, che la porterà in mostra in molte città italiane e straniere. Nel 2011 arriva a Venezia per esporre al padiglione Italia – curato da Vittorio Sgarbi – durante la 54esima Biennale d’arte.

Cresciuta a pane e cinema, in un ambiente dove, a chi ne è estraneo, sembra sempre “tutto troppo facile”, ha costruito gradualmente, con costanza e tenacia, la sua persona e la sua professionalità. Nessun fronzolo, nessuna vanità, nessuna “snobberia”, la stessa che invece invade e pervade un determinato ambiente sociale. È una donna pratica, con i piedi ben saldi al terreno, che non nasconde le proprie fortunate origini, ma che al contrario con impegno e serietà cerca di difenderle. Perché è ora di smetterla di credere – sempre e comunque – che i figli d’arte siano solo dei gran raccomandati.

Pensa che la sua vita professionale sarebbe evoluta nello stesso modo se invece di chiamarsi Francesca Leone si fosse chiamata Maria Rossi?
«Non so come avrei potuto vivere in maniera diversa. Sono sempre cresciuta con il cinema con tutto ciò che ne è conseguito. Quindi quello che appare straordinario agli altri per me rappresentava un aspetto di pura normalità. Per quanto riguarda la mia professione, intanto non sono una regista come mio padre, ma una pittrice. E poi se non avessi avuto una capacità, una bravura da far conoscere agli altri, il cognome di mio padre sarebbe servito a ben poco, anzi l’avrei persino offeso. Chi si avvicina a te, sapendo da dove provieni, lo fa anche per pura curiosità e diciamolo, anche a volte con la malizia e la voglia di dover farti passare per la raccomandata di turno.  Molti giornalisti durante le mie prime mostre scrivevano: “Mi sono approcciato alla mostra di Francesca Leone figlia di Sergio convinto di trovarmi davanti solo la figlia del regista. Mi sono accorto, invece, che è brava”. La morale è che alla fine puoi chiamarti come ti pare, ma se non sei capace a imprimere negli altri qualcosa – con le tue ricerche e il tuo lavoro – quel nome non ti servirà mai a niente».

Quanto contano le cosiddette “pubbliche relazioni” nel sistema artistico italiano?
«Io sono negata in questo, non faccio mai niente di tutto questo anzi, se posso evito le cene, gli aperitivi, i coktail, questo è forse il mio grande limite. Per esempio, sono stata invitata alla festa della Christie’s di Londra con Vanity Fair c’era il mondo dell’arte e di tutto il resto e non ci sono andata».

Ma va… non ci credo.
«È vero, mi fa fatica, mi mette ansia è come se non riuscissi a trovarmi in un ambiente del genere. Io non amo essere al centro dell’attenzione, se potessi evitare di andare all’inaugurazione della mia mostra lo farei, ma non è per non incontrare. Preferisco una cena con sei persone che mi riempie di più, piuttosto che serate del genere».

Parliamo della sua ultima mostra, quella all’opera Gallery di Londra, come ha vissuto questo riconoscimento?
«È stato molto emozionante, ma anche stressante. È difficile andare fuori casa, in un paese straniero, dove la cultura è intesa in maniera molto diversa dalla nostra, non sai come e se ti apprezzeranno, e questo genera preoccupazione, anche perché ti confronti con il mondo dell’arte in senso pieno. L’Opera gallery ha undici sedi in tutto il mondo, tranne che in Italia naturalmente e non ha neanche intenzione di aprirla una in futuro. Avevano visto delle mie opere anni fa e me ne chiesero alcune da esporre nella parte europea, quindi nelle sedi di Montecarlo, Parigi e Londra. Dopo un anno circa, che avevano i miei lavori, mi hanno chiesto di fare una personale a Londra dove c’era stato più riscontro in termini di pubblico e relativo gradimento. Quindi ho accettato immediatamente».

Pochi giorni prima dell’inaugurazione londinese una sua opera è stata battuta da Christie’s a ben 30mila sterline, quando la base d’asta era di 14mila…gli inglesi la adorano?
«Non so se mi adorino, ma il risultato di Christie’s è stato eccezionale, raddoppiare una base d’asta in una delle dimore storiche del mercato artistico è una soddisfazione enorme».

Capisco… mi dica in che rapporti è con Mariolina Bassetti? (Dal 2010 Vice Chairman di Christie’s Italia)
«È una persona che stimo molto, una donna intelligente capace di compiere un ottimo lavoro, tanti colleghi hanno lasciato il passo, mentre lei, tenace com’è, è arrivata dove è arrivata».

Tutto qui?
«Cos’altro?».

Lei solitamente acquista molte opere d’arte?
«Devo dire che seguo molto, ma acquisto meno. Non mi ritengo una grande acquirente. L’ultima opera che ho comprato è stata un ritratto di Manolo Valdés». (Artista spagnolo le cui quotazioni partono dai 5mila euro e arrivano a superare i 100mila.)

Esiste, secondo lei, un limite economico per acquistare un’opera? Una cifra oltre la quale il buon senso impedisce di metter mano ai portafogli?
«In assoluto trovo che le quotazioni di molte opere siano esagerate. L’arte, di valore intrinseco, non ha nulla se non la manodopera. Cosa può costare una tela? E i colori? Si parte da una spesa oggettiva di mille euro per arrivare, poi, a quotazioni folli. Ormai è diventato un meccanismo di investimento alla stregua dell’acquisto di azioni. Ma cosa compri? Solo dei pezzi di carta, non acquisti nulla di tangibile. A un certo punto poi alcuni sanno che se comprano quell’opera, comprano l’artista e quindi il nome, il solo a reggere  – forse – nel tempo. Di conseguenza accetti quella spesa anche se obiettivamente esosa».

Non trova, comunque, che sia un meccanismo irrispettoso, arrivare a spendere anche cifre “folli”, in un periodo economico-sociale come quello italiano, in cui la crisi economica è reale e imporrebbe scelte più oculate?
«Penso che ci siano tante cose molto lontane dal concetto di normalità, che non rispecchiano una linea di buona condotta, a partire dalla politica – dal modo in cui viene fatta e gestita – e giù a catena. Mi dirà come mai, invece, molti artisti che guadagnano bene, con i loro lavori, facciano poca beneficenza. Anche noi possiamo essere utili, io stessa ho devoluto molte volte i proventi dei mie lavori ad associazioni umanitarie e anche alle nazioni unite».

A Roma dal 16 al 28 ottobre si terrà “Affordable art Fair”, la fiera d’arte a prezzi accessibili. Le opere verranno, infatti, vendute da un minimo di 100 euro a un massimo di 5mila. Come giudica quest’iniziativa?
«Senz’altro è un’iniziativa che segue il periodo sociale e le esigenze  dettate da quest’ultimo. È necessario risanare il settore dell’arte contemporanea, che vive una crisi non solo di pubblico, ma anche di mercato. C’è sempre una fetta che compra e lo farà sempre, ma si è molto assottigliata rispetto al passato».

Quale artista ammira di più in questo momento?
«Manolo Valdés mi piace molto, sia nelle sculture che nella pittura, mi piace molto anche Miquel Barceló. Evidentemente sono attratta dagli artisti spagnoli, forse perché come tipo di mentalità, siamo più simili. E poi i grandi: Bacon, Pollock, Picasso. Tra i contemporanei, mi intriga Yan PeiMing, trovo abbia una grande espressività».

Parliamo, ora della sua pittura: materica e psicoanalitica, indagatrice e reale, fatta di grandi volti umani. Ha mai pensato di dedicarsi ad altri soggetti o esplorare altri canali espressivi?

«Sono sempre stata affascinata dall’uomo, dal suo volto, dai suoi lineamenti. Mi piace indagare questi dettagli. È stata una scoperta graduale, all’inizio quando presi per la prima volta in mano un pennello i miei soggetti erano le grandi aree metropolitane con gli uomini solo accennati. Grandi scorci urbani, sui quali poi ho “zummato” per arrivare all’individuo, al suo volto e poi ancora al rapporto di questo con l’acqua. Ultimamente sto usando la materia e sto lavorando sui corpi, concentrandomi sul dettaglio anatomico».

Quanto c’è di Francesca Leone nei volti che raffigura?
«Io non cerco mai volontariamente di ritrarre qualcosa di mio, seppur a volte, chi guarda i miei lavori, mi dica: “ma quella donna sei proprio tu!”. Penso sia un procedimento inconscio e inconsapevole che ti porta inevitabilmente, nel delineare un viso, a inserire un tuo particolare».

È stata una dei 219 artisti che ha esposto al Padiglione Italia della 54esima Esposizione Internazionale d’arte della Biennale di Venezia, una delle edizioni più chiacchierate degli ultimi anni, se non altro per le scelte curatoriali di Vittorio Sgarbi. Si è parlato dei – veri o presunti – “raccomandati”, che proprio grazie a Sgarbi e alla sua scelta di affidare a personaggi della cultura il delicato compito di nominare gli artisti per Venezia, hanno esposto al Padiglione Italia. In questo gruppo ci è finita anche lei…non ha mai pensato di abbondare il progetto?
«Ho trovato l’idea di Sgarbi geniale. Chi l’ha stabilito che sono solo i curatori e direttori di musei e fondazioni a dover sentenziare e dire: questa è arte, quest’altra non lo è? Demandare a personaggi della cultura – che comunque hanno a che fare con l’arte e quindi possiedono una sensibilità particolare – il compito di selezionare gli artisti da portare a Lido non era una mossa sbagliata, solo mal governata. Andava fatta una selezione diversa per i personaggi chiamati a scegliere e, poi, chiaramente per gli artisti da esporre. L’errore di Sgarbi è stato questo, ma anche un altro. Dopo aver lanciato la sua idea l’ha abbandonata, lavandosene le mani e permettendo così tutte le polemiche che ne sono scaturite. Paradossalmente ha mortificato un progetto che in fondo era partito bene».

Forse Sgarbi non era la persona più idonea a ricoprire il ruolo di curatore del padiglione Italia…
«Se una persona colta, come Sgarbi, ha sempre vissuto di arte, seppur non propriamente contemporanea, non vedo perché non debba ricoprire ruoli importanti. Il difetto fondamentale è stato quello di non curare il progetto nel modo giusto. Il padiglione Italia andava anche contro degli schemi un po’ obsoleti, usurati dal tempo e dalla ripetitività. Io, per esempio, ho trovato orrendo il padiglione Internazionale, quello che invece è stato adorato dalla critica. Mi ha fatto schifo, era di una noia mortale. Il fatto è che manca moralmente un modo onesto di fare e di proporre l’arte. Quello che ha più offeso il padiglione Italia è stato il fatto che l’arte di per sé non venisse proprio considerata, tutti a parlare e scrivere del modo e delle scelte di curatore, pochi – anzi pochissimi – quelli che invece che si sono soffermati su che cosa c’era davvero, in termini qualitativi, al padiglione Italia. Si rende conto che il presidente israeliano è andato in persona a rendere omaggio alle opere del suo paese, mentre il nostro ministro della Cultura (ai tempi Giancarlo Galan, ndr.), è andato prima a vedere il padiglione degli Stati Uniti e solo dopo ultimo quello italiano? Le sembra giusto?».

Come giudica, a questo punto, la nomina di Giovanna Melandri alla presidenza del museo Maxxi?
«Non so se sia stato tutto un gioco per spostare la poltrona dal Parlamento al Maxxi. Di fatto l’aspetto innegabile è l’ennesimo esempio di come vadano male le cose in Italia. Di come la politica riesca sempre e comunque a metterci lo zampino. Non è che vengono considerati i percorsi, le professioni, le capacità per ricoprire un ruolo oppure no, si dà conto solo ed esclusivamente alle esigenze di palazzo, e questo è intollerabile. Noi oggi siamo riusciti a ricostruire, o almeno stiamo cercando di farlo, una credibilità internazionale grazie a un governo che sa di cosa parla, e questo dovrebbe verificarsi in tutti i settori. Tu non puoi alzarti un giorno e decidere di fare il direttore di un giornale se fino all’altro ieri avevi un negozio di scarpe».

Tutta l’arte è politica, recita un detto popolare, altrimenti sarebbe pura decorazione…
«E Perché? Possiamo dire che l’arte è intimista, psicologica, è il modo che ha un’artista nel vedere il mondo. Io non sono una politica, non faccio politica se penso che ci siano delle cose giuste e altre sbagliate, non vedo perché tutto debba sempre esser ricondotto a un’ideologia».

Alle prossime elezioni chi voterà?
«Sono anni che non voto».

Ma il voto è un diritto…
«Non me ne vergogno, ma non saprei chi votare. Il non-voto è l’unica arma che abbiamo per cambiare questo paese. Devono cambiare loro, i politici, e poi pretendere le nostre preferenze, non possiamo essere noi a cambiare di volta in volta, passando da una parte all’altra, perché ci troviamo nell’imbarazzo di dover votare il “meno-peggio”. E non si tratta di non avere un’idea, di non credere in un’ideologia, il problema è che né l’una né l’altra sono rispettate da chi si forgia dell’appellativo di politico».

Qual è il primo gesto che compie al mattino e l’ultimo la sera?
«Al mattino bevo un bicchiere d’acqua e la sera televisione… mi uccide, sono una televisione dipendente, mi impigrisce anche a leggere».

E cosa guarda?
«Sport e film».

Quindi Sky a vita…
«Solo Sky, il resto non so cosa sia».

Mediaset premium no?
«No, solo Sky».

Il film del cuore? Non sono ammessi titoli di suo padre
«Amo i film di Vittorio De Sica e Roberto Benigni, e poi Tarantino e Spielberg».

per vedere le opere di Francesca Leone vai sul suo sito clicca qui

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