Nel 1923 Giò Ponti – divenuto direttore artistico della Richard Ginori, incarico che manterrà fino al 1930 – inizia a rivaleggiare con la Società Ceramica Italiana di Laveno (Varese), allora sotto la direzione creativa di Guido Andlovitz. Il 7 gennaio 2013, a novant’anni di distanza da quei tempi d’oro, il tribunale di Firenze ha dichiarato fallita l’azienda fondata nel 1735 dal marchese Carlo Andrea Ginori e fusa con la Manifattura Richard di San Cristoforo (Milano) nel 1896.
Che la storica azienda di Sesto Fiorentino (Firenze) fosse in crisi da anni è noto; manifestazione tangibile il ritorno in Borsa del 2009, con il titolo che precipitava di oltre il 50% dai massimi dopo appena un mese e mezzo dal debutto. Ma anche gli innumerevoli passaggi di proprietà che di fatto hanno affossato la Richard Ginori. Si pensi, ad esempio, al 2006 quando, con l’entrata nell’azienda del gruppo di Bormioli Rocco & Figli, si proponeva una trasformazione del prodotto per portare il marchio Ginori nelle catene della grande distribuzione.
Che si sarebbe arrivati a questo punto, però, non sembrava prevedibile, neanche in seguito agli sviluppi degli ultimi mesi. È necessario un focus sulla situazione, quindi.
La Manifattura di porcellane, chiusa il 31 luglio scorso, dal primo agosto ha interrotto la produzione e da allora i dipendenti sono in cassa integrazione. L’11 settembre il collegio dei liquidatori, presieduto da Marco Milanesio, ha presentato al tribunale di Firenze domanda di concordato preventivo, corredandola con due proposte d’acquisto: una della piemontese Sambonet, l’altra della cordata tra l’americana Lenox e la rumena Apulum (controllata dall’italiana Rodytime). I fratelli Pierluigi e Franco Coppo – proprietari della Sambonet, da loro rilevata nel 1997, ed esperti in salvataggi aziendali come dimostrano i casi della Paderno e della tedesca Rosenthal – si impegnavano a mantenere gran parte della produzione nello stabilimento di Sesto Fiorentino, a riassorbire 150 lavoratori e a pagare 7 milioni di euro. Dal canto loro, Lenox-Apulum erano disposti a riassumere 280 lavoratori e ad offrire 13 milioni, dividendosi gli asset: il marchio Richard Ginori sarebbe stato controllato da Lenox, mentre la fabbrica di Sesto Fiorentino da Apulum. Il 14 novembre scorso i liquidatori scelsero l’offerta presentata dalla cordata, suscitando reazioni opposte nei sindacati dei dipendenti: se alcuni appoggiavano la forza economica di Lenox-Apulum, altri criticavano la decisione degli acquirenti di scindere il marchio Richard Ginori dalla parte produttiva. Il coup de theatre si deve però al Tribunale fallimentare che ha ravvisato incertezza nel piano presentato dai liquidatori. Difatti il concordato si basava da un lato sull’affitto e la successiva vendita alla cordata, dall’altro sulla cessione del Museo di Doccia della Richard Ginori allo Stato. Cessione finalizzata a compensare il debito tributario a carico dell’azienda fiorentina, ma subordinata al parere favorevole da parte del governo circa l’utilizzo della “Legge Guttuso”. Questa norma, introdotta nel 1982 e di rara applicazione, consente ai debitori del Fisco di saldare la propria posizione versando allo Stato il patrimonio storico artistico in loro possesso.
Decretato il fallimento, il Tribunale ha nominato come curatore fallimentare Andrea Spignoli che conosce bene l’azienda, essendo stato consulente tecnico d’ufficio per la Richard Ginori. A lui spetta la pubblicazione di un nuovo bando di vendita al quale potrebbe partecipare nuovamente la Sambonet, stando alle parole del Presidente Pierluigi Coppo: “Attendiamo di parlare con il curatore fallimentare per manifestare la nostra disponibilità a riconsiderare l’acquisizione di Richard Ginori”.
Intanto Spignoli ha avviato l’esercizio provvisorio dell’azienda, finalizzato alla ripresa di alcune attività produttive legate alla necessità di evadere ordini nazionali ed esteri ancora presenti in portafoglio. Da segnalare, e valutare positivamente, anche la partecipazione della Richard Ginori alla fiera di settore Macef, a Milano dal 24 al 27 gennaio.
Da ultimo, è bene ricordare l’impegno profuso dai sindacati confederali per tenere alta l’attenzione sulla vicenda. A testimoniarlo la fiaccolata, organizzata il 18 gennaio, che ha attraversato le vie di Sesto Fiorentino coinvolgendo oltre duemila persone e l’allestimento, nei giorni seguenti, di gazebo dimostrativi della abilità dei lavoratori dell’azienda.
Cosa augurare quindi ad una delle più antiche manifatture di porcellane d’Europa, la cui produzione è stata rinnovata, nelle forme e nei decori, grazie all’attività, tra gli altri, di Giò Ponti, Giovanni Gariboldi, Achille Castiglioni e Angelo Mangiarotti? Che il nuovo acquirente proponga un piano di risanamento efficace e mantenga la produzione a Sesto Fiorentino, perché, come recita lo slogan del corteo del 18 gennaio scorso, “La Ginori deve vivere”.
2 Commenti
L’Italia ha bisogno di non perdere aziende e tesori come la Ginori. Per questo la Ginori deve vivere e dovrebbe essere salvata.
La Ginori E’ la PIU’ ANTICA manifattura di porcellane d’Europa, innovatrice nella tecnica di filtratura della barbottina e nella cottura del vasellame sin dal XVIII secolo, allorquando fra gli artisti che si dedicavano al settore della plastica si annoverava un maestro del calibro di Giovan Battista Foggini.
Io spero con tutto il mio cuore che l’enorme patrimonio storico-artistico (anche documentale, archivistico e fotografico) che ancora qualche anno fa avevo tentato di catalogare almeno per sommi capi all’interno dell’immenso stabilimento di Sesto non venga disperso, così come fu fatto sin dall’epoca della gestione Ligresti (e chissà da quando prima). Sparirono pezzi di rara importanza sin dalle gestioni degli anni ’70 del ‘900 e che potevano provenire anche dall’antico Museo di Doccia (quello ottocentesco costruito all’interno della proprietà dei Marchesi Ginori, precedente al Museo della Manifattura oggi vicino alla Fabbrica) tant’è che erano persino provvisti di Notifica (ma a quanto pare la Soprintendenza non aveva posto la dovuta attenzione) e sparivano a camionate con commesse addirittura preparate a tavolino. Quando vi lavorai io, di settimana in settimana, vedevo scemare nelle voragini dei sottarrenei, di cui nessuno si era mai occupato neppure di conoscere i contenuti (che però erano noti a tutti coloro che vi lavoravano dalla direzione alle maestranze ai collaboratori diversi), una gran quantità di pezzi antichi e del ‘900 che erano là riposti per campionario o in deposito per conto del Museo. Va da sé che il mio allarme (modesto, nella già annunciata catastrofe) non fu mai raccolto per quanto ne so io.
E’ un patrimonio immenso di arte, cultura e storia della tecnologia, quello della Ginori, di cui tutta Italia dovrebbe sapere e di cui dobbiamo andare orgogliosi, ma poiché è parte di una Manifattura privata, allora non vi si dedica un rigo neppure nelle riviste specializzate, se non per questioni puramente finanziarie o sociali (queste ultime di enorme rilievo, naturalmente). Se la Richard-Ginori fosse una manifattura germanica, francese, inglese o russa, oggi Museo e Fabbrica (con il loro prezioso contenuto) sarebbero tutelati dalla comunità e dallo Stato e il lavoro delle maestranze italiane altamente specializzate tenuto a conto come un tesoro da salvare contro ogni regola della finanza d’assalto cui noi sottoponiamo le nostre migliori industrie affinché nel giro di pochi anni siano sfasciate da figuri di dubbia qualità imprenditoriale (per non dire morale).
Da Ligresti in poi, quasi tutte le gestioni amministrative furono dettate dalla politica, che se ne infischiava del know-how specifico o della manifattura in sé. Un’azienda utile solo per piazzarvi soggetti che avevano fatto disastri in qualche altro sito e che QUINDI, poiché indebitamente premiati, si sentivano in diritto di depauperizzarla anche del proprio patrimonio. Del resto, Rinaldini veniva dalla disastrosa amministrazione straordinaria di Volare e, come impone la perniciosa regola italica, DOVEVA ricevere una buona uscita, ma fosse stato l’unico a far male…
Come la politica riesce a distruggere consapevolmente un pezzo della nostra Cultura più alta. E noi, poco informati, non possiamo mai nulla.
Non rimarrà traccia dell’antico marchio Ginori se non nelle case di chi ancora ha qualche servito buono dalla nonna o dai genitori o nelle sale del piccolo Museo di Sesto che non ha mai avuto possibilità né economica né operativa di consolidare le relazioni internazionali che meritava e che avrebbe pur potuto coltivare perché le richieste di prestito o di collaborazione fioccavano quotidianamente (ne sanno più all’Estero delle nostre “cose d’arte” di quanto ne sappiamo noi). Qualcosa altro è nella raccolta privata dei Marchesi Ginori a Firenze, che tuttavia non si può visitare (è concesso solo allo studioso, dopo innumerevoli passaggi dalle forche caudine…). Separare il Museo dalla Manifattura sarebbe stato impensabile per chiunque solo pochi anni fa, ora sembra una necessità cui non si può fare a meno, in virtù del fatto che probabilmente la stessa fabbrica di Sesto sarà definitivamente smantellata, i dipartimenti di colaggio, plastica e decorazione dispersi, le persone e la loro sapienza tecnica e artistica perdute.
Un disastro terribile per tutti.