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Gianluca Marinelli

Corro a rileggere “Le relazioni pericolose” con maggior consapevolezza del destino dell’autore. In bilico tra storico dell’arte e artista impegnato, Gianluca Marinelli (Taranto, 1983; vive tra Taranto e Milano) studia le vicende di personaggi con cui sente affinità e di cui recupera dall’oblio la storia.

“Taranto fa l’amore a senso unico” è un libro di cui sei l’autore. In esso metti in evidenza alcuni aspetti che connotano la tua ricerca artistica, ossia l’attenzione alla tua città e un’attitudine alla rievocazione delle vicende di personaggi dimenticati.
«Il libro, il cui titolo prende spunto da una performance di Vittorio Del Piano del 1971, racconta l’esperienza di alcuni artisti attivi a Taranto negli anni Sessanta e Settanta, che si confrontarono con le prime contraddizioni legate all’industrializzazione del territorio. Emerge un quadro complesso, talvolta di collaborazione, dove però non tarda a manifestarsi un atteggiamento critico: artisti e intellettuali denunciano i guasti cui stavano conducendo le irresolutezze dell’”illuminato” capitalismo di Stato incarnato dall’Italsider.

Si tratta di una ricerca che mi ha impegnato per alcuni anni e che ho presentato in una personale (“La scelta del presente”, a cura di Andrea Fiore, Galleria Monopoli, Milano, 2012 n.d.r.), dove ho giocato con i registri narrativi, utilizzando fonti e oggetti che avessero un significato intimo per gli artisti di quel contesto. In quell’occasione era presente anche il video “L’ambiente audio/cinetico di Antonio De Franchis”, che avevo già proiettato nel padiglione spagnolo della 54. Biennale di Venezia, in cui approfondisco la storia di un artista operaio dell’Italsider, Antonio De Franchis, che esordisce come pittore, ma rapidamente si orienta verso ricerche cinetiche».

L’aspetto di denuncia rappresenta una componente importante del tuo lavoro. Con Forte Laclos, dall’attenzione alla realtà di Taranto e dell’Ilva dal punto di vista ambientale, sociale, civile recuperi la memoria storica di un letterato del Settecento, passando da un piano collettivo a uno individuale?
«Attraverso questo lavoro, che presento in un’altra mia personale curata da Andrea Fiore nella Galleria Monopoli, mi interessa sollevare una serie di questioni, quali l’autodeterminazione dell’individuo, l’assurdo e la precarietà come le forze che in ogni epoca condizionano la vita e i comportamenti collettivi. Lo faccio analizzando l’epilogo esistenziale di Choderlos de Laclos, generale napoleonico e autore de “Les liaisons dangereuses”, che arriva in Puglia nel 1803 per costruire un forte sull’isola di San Paolo, nei pressi di Taranto. Si ammala di dissenteria e, dopo cinquantaquattro giorni, muore in assoluta miseria. Il progetto napoleonico di militarizzazione del golfo di Taranto viene recuperato e concluso solo dopo l’Unità d’Italia. Ci sono connessioni profonde tra la fortificazione ottocentesca e gli investimenti siderurgici degli anni Cinquanta del Novecento. Entrambe le vicende hanno avuto un impatto forte nel territorio, a livello non solamente economico, ma anche urbanistico, antropologico e soprattutto ecologico. Si è trattato di scelte imposte dall’alto, prive di legami con la tradizione storica locale, che hanno creato traumi e pesanti contraddizioni. Mi interessava anche riflettere sull’autodeterminazione di una città -di una società in generale- nell’attuale stato di smarrimento, costretta a ripensarsi, dopo essere stata pensata per troppo tempo da altri. La vicenda di Laclos mi sembra esemplare, in quanto incarna l’ideale dell’intellettuale libero che agisce ispirato dalle sue convinzioni. La sua fine assurda conferisce un carattere tragico e quasi eroico al suo percorso».

Come ti sei appassionato a questa vicenda e hai deciso di farne un tema della tua ricerca?
«In passato avevo letto “Le relazioni pericolose” e per caso l’anno scorso mi sono ritrovato a confrontarmi con altri romanzi epistolari che mi hanno ricondotto a Laclos. Approfondendone la biografia ho scoperto il suo legame con la mia città, che ignoravo.
Dallo studio delle lettere inviate alla moglie e ai suoi superiori, è emersa una figura che sentivo molto attuale. Quindi ho avvertito l’esigenza di approfondirne la storia e sviluppare un progetto».

Il video rappresenta un elemento importante del progetto su Laclos.
«Tutto il percorso espositivo è costruito intorno al video. La vicenda che evoca è legata al fatto che prima di morire Laclos esprime il desiderio di non ricevere soccorso religioso. La salma, non potendo essere seppellita nel cimitero, è trasportata sull’isola di San Paolo. La tomba, mai terminata, rimane per anni abbandonata. Nel 1815, al ritorno al potere del re Ferdinando di Sicilia, la tomba viene profanata da vandali probabilmente filo borbonici e le ceneri sparse in mare. Poco dopo, il Forte Laclos, mai ultimato, viene raso al suolo. Al suo posto viene costruita una corazzata militare, uno dei capolavori dell’ingegneria militare ottocentesca europea, attualmente in uno stato di decadenza e abbandono.

Il filmato opera un recupero della tradizione popolare tarantina, secondo la quale, durante le notti di burrasca, il fantasma del generale francese appare ai pescatori nei pressi dell’isola di San Paolo, per caricarsi di ulteriori significati. La seconda parte del video ha invece un taglio da reportage sull’isola proibita, di proprietà della Marina, dove è vietato l’attracco delle barche».

Il fatto che la tua ricerca abbia basi teoriche molto solide ti porta ad accumulare informazioni su informazioni…
«In questo caso, dalle indagini d’archivio ho ricavato i materiali che poi ho rielaborato. In alcuni metto a confronto delle immagini libertine tratte dal suo romanzo, che ha ispirato molti pittori francesi a partire da Fragonard, con le lettere di Laclos scritte da Taranto. Mi interessava generare un contrasto tra la condizione di disagio esistenziale e i luoghi comuni legati alla figura del generale-scrittore, a seguito della pubblicazione dello scandaloso romanzo. Un tentativo di sollevare il problema del rapporto tra l’artista e la sua opera, quindi dell’impossibilità di entrare fino in fondo nel mistero della creazione artistica».

Una storia di parallelismi e rimandi, che travalicano le vicende del singolo individuo.
«Decisamente. La precarietà e l’indifferenza nei confronti del lavoro intellettuale continuano a essere molto attuali. Da ciò l’idea di integrare nel percorso espositivo l’ascolto di una poesia di Karaca Oglan, un poeta turco del Seicento, musicata da Nadia Martina, Marcello Zappatore e Fabio Zurlo. L’accostamento di diverse lingue all’interno della mostra, come quella latina, francese e turca, oltre a evocare culture agli antipodi e la storia di imperi che hanno dominato il Mediterraneo, mi interessa perché rimanda a una riflessione più ampia e universale, che riguarda il destino tragico dell’intellettuale libero».

Il tema della memoria e dell’oblio rappresentano un filo conduttore nella tua ricerca.
«Recentemente ho approfondito anche la figura di Scipione Ammirato, un umanista leccese poco conosciuto nella sua città, che aveva creato nella sua villa extraurbana l’Accademia dei Trasformati, un cenacolo intellettuale con l’obiettivo di trasformare la società. Si tratta nuovamente di un’indagine che coniuga la ricerca filologica con la pratica artistica. Un viaggio tra passato e presente, tra memoria e sogni, per avviare una riflessione sui processi storici e sulle contraddizioni generate dalle trasformazioni. Per questo lavoro ho riunito materiali d’archivio, coinvolgendo intellettuali, artisti e gente comune. È nato un video, le cui immagini mostrano come la cinquecentesca casa di Scipione Ammirato sia attualmente inserita in uno dei luoghi più emblematici della speculazione edilizia leccese».

Anche in questo caso hai realizzato un video. Da che cosa dipende la scelta del medium?

«Scelgo i linguaggi in base al progetto. Pur dipingendo molto, al momento mi è difficile pensare di realizzare un progetto di sola pittura. In realtà, ho molta difficoltà a riguardare ciò che ho fatto in passato, per esempio ho distrutto molti dipinti realizzati. Eppure spesso me ne sono poi pentito, guardando le opere superstiti».

 

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