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Arte nel museo Saramago

Delacroix, La libertà che guida il popolo

Goya e Van Gogh nel museo di Josè Saramago

 

Delacroix, La libertà che guida il popolo

Sempre in cerca di una critica d’arte “indiretta”, seminata nei frastagli dell’altrove, ma illuminante, e soprattutto, più stimolante rispetto a quella, diffusa, dalla vista corta, tenuta a freno dalla briglia ancor più corta dell’accademismo o della speculazione didattica, mi sono imbattuto in un passaggio tanto rapido quanto fulminante di un famoso romanzo del premio nobel Josè Saramago: Cecità. Si possono intanto rilevare due circostanze interessanti per contestualizzare il brano non solo rispetto alla storia, ma anche riguardo alla prosa dello scrittore portoghese ed al tono peculiare del romanzo.

La prima è che Saramago mostra una predisposizione, occasionalmente affiorante, nei confronti delle cripto-citazioni artistiche. Il caso più eclatante è quello del passo in cui, riferendo del personaggio della moglie del medico, unica vedente in un mondo di ciechi, andata in avanscoperta alla ricerca di cibo, nel descrivere la sozzura delle strade, invase da rifiuti, scatolame e carcasse, produce questo ardito paragone, tenendo conto del fatto che il vestito della donna era praticamente in brandelli:

Stava piovendo a dirotto quando raggiunse la strada, Meglio così, pensò, ansimando, con le gambe tremanti, si sentirà meno l’odore. Qualcuno le aveva afferrato l’ultimo brandello che a stento la copriva dalla cintola in su, adesso aveva i seni scoperti, e su di essi, purificatrice, che parola raffinata, scorreva l’acqua del cielo, non era la libertà che guidava il popolo, i sacchetti, per fortuna pieni, pesano troppo per trasportarli issati come una bandiera.

Il riferimento è ad un noto dipinto di Eugène Delacroix, per l’appunto La libertà che guida il popolo (1830), ora al Louvre. Certo, non siamo di fronte ad un’ecfrasi dell’opera, ma il corto circuito per cui Saramago riadopera quell’immagine rivela in qualche modo il funzionamento di un automatismo più o meno inconscio. Il dipinto del francese era infatti “un’allegoria reale” (secondo quanto dichiarato dallo stesso pittore, in un lettera del 1836), con la figura simbolica della Libertà, tanto determinata quanto discinta come il personaggio di Saramago, avanzante entro uno scenario “compendiario”, mentale, con quella Notre-Dame sullo sfondo che appare entro uno scorcio improbabile; eppure, popolato di dettagli di crudo realismo, per i quali cocente dovette essere il ripensamento ai modi di Theodore Gericault, e segnatamente de La zattera della medusa (1818-19). Similmente, Cecità di Saramago è un romanzo dalla dimensione allegorica, ma che produce una vivida sequela di descrizioni d’irresistibile fisicità.

E siamo al secondo punto: nel dare consistenza alla decadenza fisica – allegoria di quella morale – del mondo in cui brancolano i ciechi, Saramago compie un’opera di concentrazione espressiva, come sforzandosi di superare la “cecità verbale”, per cui la scrittura non equivale per statuto all’illustrazione visiva tout court. Nella propria indeterminatezza – non vengono fatti i nomi dei personaggi, né della città in cui si svolge il dramma – Cecità è dunque un romanzo d’impressiva sensorialità, specie olfattiva: dalle pagine del portoghese si levano per lo più odori, ma su di un sostrato di notazioni visuali di profonda efficacia.

Una pars pro toto di questo stile, che cerca di esprimere entro l’avviluppante confine delle parole il perduto senso della vista, è nel pout pourri d’immagini con cui uno dei personaggi, genericamente indicato quale il vecchio con la benda nera sull’occhio, descrive, dopo il racconto degli altri, l’ultima cosa che ricorda di aver visto prima di diventare cieco:

L’ultima cosa che ho visto è un quadro, Un quadro, ripeté il vecchio dalla benda nera, e dove si trovava, Ero andato al museo, era un campo di grano con corvi e cipressi e un sole che sembrava esser fatto con pezzi di altri soli, Ha tutto l’aspetto di essere di un olandese, Credo di sì, ma c’era anche un cane sul punto di sprofondare, era già mezzo sotterrato, poverino, In tal caso, può essere solo di uno spagnolo, prima di lui nessuno aveva dipinto così un cane, dopo di lui nessun altro ha osato farlo, Probabilmente, e c’era un carro carico di fieno, tirato da cavalli, che attraversava un ruscello, C’era una casa a sinistra, Sì, Allora è di un inglese, Potrebbe essere, ma non credo, perché c’era anche una donna con un bambino in braccio, Di bambini in braccio a donne se ne vedono dovunque in pittura, In effetti, l’ho notato, Quello che non capisco è come potrebbero trovarsi in un unico quadro dipinti così diversi e di così diversi pittori, E c’erano degli uomini che mangiavano, Sono talmente numerosi i pranzi, le merende e le cene nella storia dell’arte che, in base a questa sola indicazione, non è possibile sapere chi mangiava, Gli uomini erano tredici, Ah, allora è facile, vada avanti, C’era anche una donna nuda, con i capelli biondi, dentro una conchiglia fluttuante nel mare, e intorno a lei tanti fiori, Italiano, chiaro, E una battaglia, Eccoci di nuovo come nel caso dei pasti e delle madri con bambini in braccio, non basta per sapere chi lo ha dipinto, Morti e feriti, è naturale, prima o poi tutte le creature muoiono, e i soldati pure, E un cavallo impaurito, Con gli occhi che sembravano voler fuoriuscire dalle orbite, Esattamente, I cavalli sono così, e quali altri quadri c’erano in quel suo quadro, Non ce l’ho fatta a saperlo, sono diventato cieco nel preciso istante in cui stavo guardando il cavallo.

Per alcuni dei quadri indicati, il riferimento iconografico è troppo vago per capire a quale dipinto si riferisca Saramago – ammesso che intendesse citarne uno in particolare: così, ad esempio, quello con “una donna con un bambino in braccio”, o la cena di tredici persone, generica ultima cena. Per altri, è facile rinvenire l’opera sottintesa: la “donna nuda” che fluttua nella conchiglia è dell’”italiano” Botticelli, per la precisione la nota Nascita di Venere (1482-85) degli Uffizi. Per altri ancora, è solo possibile fare ipotesi: le battaglie della storia dell’arte sono numerose, come il cosiddetto Mosaico d’Alessandro, con la battaglia di Isso, in cui un soldato muore per salvare Dario dal colpo del macedone, ed il cavallo di quest’ultimo s’imbizzarrisce.

Per due citazioni in particolare, tuttavia, il testo contiene anche uno spunto di lettura visuale en passant. La prima, più fugace, pertiene al Cane semiaffondato dello spagnolo Francisco Goya, la più angosciante ed enigmatica delle pinturas neras della Quinta del Sordo, ossia delle opere che l’artista dipinse sui muri della propria casa sulle rive del Manzanarre tra il 1820 ed il 1823. Si vede solo la testa del cane, divorato dall’ocra della rena in cui sta affondando. Non decifrata unanimemente, la scena dovrebbe esprimere l’ineluttabilità di un destino che travolge senza una colpa particolare un essere inerme. Certo è che l’effetto di Cecità di Saramago, di un contagio che ingurgita come sabbie mobili, è singolarmente affine nella propria espressività.

Francisco Goya. Cane che affonda

 

Francisco Goya, particolare

La seconda attiene a Van Gogh, autore sia di tre dipinti con un Campo di grano con cipressi, che di un’opera dal titolo Campo di grano con corvi (luglio 1890). Scrivere di un “sole… fatto con pezzi di altri soli” rimanda alla pennellata fratta dell’”olandese”, ma soprattutto la pluralità dei soli necessari a farne uno potrebbero implicare quel senso di appartenenza ad una natura molteplice, che venga però rimontata in un collage deformante da una coscienza scissa, in cui all’impressione puramente visiva si sovrapponga quella interiore. È la sintesi della pittura di Van Gogh, secondo la sua stessa dichiarazione in una lettera a Theo (221, primi di agosto 1882): “è compito del pittore lasciarsi fagocitare dalla natura e servirsi delle proprie capacità per esprimere, attraverso la sua opera, sentimenti che siano intelligibili agli altri”. Ed a sua volta, come anticipando la prosa di Saramago, ma anche la sua stessa pennellata spezzata, Van Gogh scrive pure: “Le pennellate vengono fuori con una sequenza e una concatenazione tra loro come le parole di un discorso o in una lettera” (lettera a Theo 504, giugno-luglio 1888). Le parole, insomma, contano.

Van Gogh. Campo di grano con volo di corvi

 

Van Gogh. Campo di grano con cipressi

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