È la prima volta che Francesco Fossati (Carate Brianza, 1985) apre le porte del suo studio a un estraneo. «Normalmente lo spazio non è così in ordine. Di solito lavoro tanto, lasciando tutto in giro, poi arrotolo i disegni, metto via tutto e comincio con nuove opere». La luce zenitale della mansarda illumina una scrivania ingombra di piccole tavole, che fanno parte di “Hippy Architecture”.
«Sono pezzi unici, foto dipinte e applicate su legno. “Hippy Architecture” è un lavoro che riflette sull’idea di pittura unendo due generi diversi, da un lato l’optical degli anni Sessanta e Settanta, dall’altro quella che io definisco di paesaggio, anche se i soggetti sono in realtà delle architetture che identifico come hipie. Si tratta di una categoria molto ampia, che comprende costruzioni che vogliono avere un rapporto con l’ambiente circostante e, in questo modo, diventano pitture di paesaggio. Ci sono case costruite a mano, edifici ecosostenibili, che ho catalogato in un archivio creato da immagini raccolte da internet, riviste e libri. Questo lavoro vuole scardinare il concetto di site specific, essendo infinitamente modulabile e adattabile a contesti diversi, in grado di leggere la pelle delle architetture».
In diversi lavori la tecnica pittorica rappresenta una componente importante. Spesso anche se parti da un’immagine fotografica essa viene trasformata.
«Anche se non sempre le opere si concretizzano in pittura però spesso partono da sperimentazioni pittoriche che poi prendono altre strade. In “Update required”, per esempio, ho fatto una mappatura delle targhe commemorative dedicate agli artisti nella città di Milano, ho successivamente preparato le immagini per la stampa e poi ho ridipinto le foto, includendo tutti i segni grafici che normalmente vengono tagliati. Sono entrato in dialogo con questi artisti con un atto materiale, ma ho unito anche mezzi differenti, perché ho scelto di trasformare la tela in uno stendardo appeso a un neon».
Anche le tue “sculture” risultano pittoriche.
«Sono un’indagine sulla pittura, attraverso la creazione di opere tridimensionali che hanno senso solo in relazione alle immagini visibili al loro interno. Quando ho iniziato a pensare di voler realizzare un dipinto con il mezzo scultoreo, l’idea era di unire terre di colore diverso, ma mi era venuta in mente un’affermazione di un mio professore che sosteneva ciò non fosse possibile. Effettivamente ci sono grosse limitazioni ed è un processo molto lungo, che ho perfezionato con l’aiuto di un vasaio. Talvolta quando termino un nuovo lavoro chiedo a qualcun altro di realizzarne un esemplare, per riuscire a distaccarmi e non considerarlo come il risultato dell’opera “dell’artista genio”».
Un’altra caratteristica del tuo fare artistico è il fatto che, in molti casi, alla base ci sia un archivio. Questo ti consente di lavorare per serie potenziali, perché un’opera limitata diviene, grazie alla catalogazione, potenzialmente estendibile?
«Sì, l’archivio è un elemento che si ritrova spesso. Anche in “Sometimes I think about the cities”, un lavoro iniziato nel 2011 che vorrei sviluppare non appena riuscirò a liberare il mio piano di lavoro, avevo creato un archivio di immagini di megalopoli, da cui ho realizzato, tagliandole a strisce verticali e riassemblandole, un nuovo orizzonte piatto per ripensare le città in maniera utopica, scomponendo le foto e creando delle astrazioni, delle geometrie sia sopra che sotto lo skyline».
Ai tuoi archivi e ai tuoi procedimenti di catalogazione si associa l’idea di scientificità, limitata però dalla presenza di un criterio di scelta estremamente personale. Questa caratteristica è evidente nel titolo del tuo libro d’artista.
«“Una storia parziale degli artist-run spaces dal 1858 insino a’ tempi nostri” raccoglie la storia di spazi espositivi gestiti da artisti. Si tratta di una storia parziale perché, pur essendo una ricerca molto ampia, ho deciso di non includere troppe realtà, per scarsità di informazioni, per un limitato interesse o perché in un’area geografica che avevo scelto di non trattare. Ho perso di scientificità, aumentando, però, la qualità dell’informazione. Da questo progetto è nato un numero della rivista “E il topo” che ho realizzato autonomamente in cinquanta copie e che ha portato alla rinascita del giornale, dopo sedici anni di inattività. Il primo numero, tra l’altro, è stato sviluppato dalla stessa idea che mi ha condotto a “Update required”: ero fermo con lo scooter a un semaforo di Milano, ho visto una targa dedicata a Filippo Tommaso Marinetti e ho pensato di raccogliere foto di artisti scomparsi negli ultimi sedici anni».
La presenza del tuo sguardo dunque condiziona il risultato, rendendo l’approccio non completamente rigoroso?
«Sì, nei miei lavori, nonostante io cerchi di lavorare in maniera scientifica, inserisco inevitabilmente il mio vissuto. Anche nell’interesse per l’elemento luminoso e per la gamma cromatica presente in molte mie opere unisco una componente scientifica e una emozionale: mi interessa rendere l’esperienza della luce in maniera fisica. In “Hippy Architecture” l’idea di avvolgere le pareti di una stanza con un arcobaleno si lega alla possibilità di sperimentare un’esperienza di percezione cromatica».
I titoli rivelano questa parzialità, questa assenza di pretesa di scientificità, per esempio in “Strumento imperfetto per tracciare arcobaleni”.
«In questo lavoro abbino l’idea del disegno tecnico all’arcobaleno, quindi un elemento effimero a una dimensione scientifica, rendendo tangibile la potenzialità di questo oggetto, in bilico tra la possibilità di utilizzarlo e il non poterlo usare. Vorrei crearne uno per ogni mia mostra personale, aggiungere un esemplare a cadenza irregolare».
Parliamo di “Late Again”. Guardando la serie ho pensato a una riflessione di carattere anti-celebrativo.
«Sono fotografie applicate su dibond, con telaio. È un lavoro sui due modi di usare la fotografia, come stampa o come documentazione di un processo artistico che non lascia residui come la performance. Mostrando il fotografo nei riflessi sulla superficie della coppa, registro un aspetto inutile, documentando un atto fotografico e generando così uno scarto a livello linguistico.
La tua interpretazione di questo progetto non coincide con i presupposti dell’opera, ma questo non mi disturba, perché l’obiettivo del mio operare è la coincidenza tra forma e significato. Il soggetto diventa un pretesto per parlare di qualcos’altro, voglio fare un lavoro di carattere metalinguistico, esclusivamente sul linguaggio».
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