Giulio Zanet (Collaretto Castelnuovo, 1984; vive a Milano) mi mostra prima le opere più recenti, per poi risalire a ritroso nel corso degli anni, recuperando tele e carte accatastate negli angoli del suo studio, vicino a una bicicletta che sta riparando. «Negli ultimi giorni sono stato preso da una vena astratta, che mi ha portato a realizzare una serie di piccole tele, in cui ho eliminato completamente la figura, per la prima volta. Avevo anche pensato di utilizzarle all’interno di altri lavori, al posto dei solidi che solitamente inserisco, in modo da giocare con le profondità e i volumi. Sono delle interruzioni, delle pause monocrome che assumono le sembianze di figure geometriche».
Riesci a lavorare contemporaneamente a opere diverse?
«Sì, alterno tele e carte, senza scegliere a priori, anche se so che sulle une posso usare tantissima materia che le altre non reggerebbero. Sto lavorando anche a una serie di carte con cui vorrei tappezzare un ambiente, alla stregua delle “Ninfee” di Monet. Si tratta sempre della stessa pianta, che ogni tanto fotografo e disegno. La posseggo da molto tempo e mi ha accompagnato nei miei numerosi cambi di abitazione. Non la curo con particolare attenzione, eppure non muore e ormai mi sono affezionato».
Lavori sempre a muro?
«Incollo la tela alla parete con lo scotch, tendendola bene, perché ho sempre detestato il tremolio che altrimenti si produce. Il nastro adesivo è un elemento che uso spesso, per realizzare dei riquadri o come cornice. Mi rimangono poi tutte le strisce con il colore, che vorrei riutilizzare, inserendole nei quadri o realizzando delle piccole sculture. Durante i due mesi di residenza trascorsi a Berlino avevo creato un riquadro pieno di pezzi di scotch adesivo sormontato da un tetto. Si trattava di un’opera estemporanea, sulla parete, che è stata smantellata.
Sono comodo nel lavorare sul muro anche perché uso delle lunghe bacchette di legno per tracciare le righe che caratterizzano la mia ultima produzione. A volte le delineo con il pennello, usando il legno come righello, in altri casi, invece, immergo direttamente l’asse nel colore e la applico sulla tela».
Unisci così la geometria, il righello, il colore e le colature.
«Evidenzio il contrasto tra la regolarità delle righe e lo sporco, la casualità degli acrilici. Questa contrapposizione è ora più consapevole, ma mi ha sempre accompagnato e ho imparato a tradurla nell’introduzione del caos nel limite. Mi affascina molto l’idea che la regolarità possa produrre irregolarità, che il risultato possa non essere quello di una struttura geometrica tirata con il righello».
I tratti spesso sembrano realizzati a mano libera, anche grazie alla sovrapposizione tra livelli e colori, eppure le tele risultano sempre piatte, non materiche.
«Effettivamente credo che, se misurato, lo strato sia spesso, anche se risulta piatto. L’unica eccezione è nel momento in cui inserisco un elemento estraneo, come la carta da lucido o una pagina di enciclopedia. Ho trovato per strada una collana dell’enciclopedia “Il Milione”, degli anni Sessanta, ed è diventata un’infinita fonte di immagini».
In alcune tue scelte compositive mi pare che, invece, ci sia un richiamo ai mass media. Mi riferisco, in particolare, alla scelta di incorniciare alcuni dipinti con un contorno che ricorda lo schermo di un televisore oppure la vista da un finestrino.
«Sì, sono cornici, ma inevitabilmente si pensa alla tv o ai finestrini dei treni. In passato, per una mostra, mi ero ispirato a “Written on the Hays”, un melodramma americano anni Cinquanta girato quando era in vigore il codice Hays, un regolamento censorio per il cinema che il regista era riuscito ad aggirare, da cui avevo estrapolato le immagini».
Nei lavori del passato si trovano gli elementi che hai conservato nelle opere attuali, in cui, però, li separi.
«Inizialmente la figura occupava l’intera superficie delle opere, successivamente mi sono concentrato maggiormente sulla composizione, sull’equilibrio e sui singoli elementi per arrivare, pian piano, a lavorare per sottrazione».
C’è una semplificazione che ti porta verso la ricerca dell’essenzialità e verso l’astratto.
«La tensione verso l’astratto è legata anche alla volontà di realizzare una serie di dittici, con da una parte solo colore e dall’altra la figura, per continuare il gioco dei contrasti che ho sviluppato con le righe in cui, lavorando con le tinte pure, le cromie si mischiano direttamente sulla tela».
Spesso scegli il bianco e il nero per i solidi che inserisci nel mezzo delle tele.
«Sì, solitamente adotto questi colori per le figure geometriche che spezzano la narrazione. Può sembrare paradossale parlare di narrazione, ma in passato le mie opere erano molto narrative ed è una componente che mi caratterizza, anche solo per il fatto che leggo molti romanzi. Da ciò deriva questo approccio e la possibilità di considerare i quadri come pezzi di frasi, estrapolati da un discorso, che quindi perdono il senso della storia e possono parlare di qualunque cosa».
Nei titoli si trova questo riferimento a una possibile storia?
«Ultimamente, a parte la serie di quattro “Non mi piace prendere impegni”, non sto usando alcun titolo. In passato, invece, prediligevo delle brevi frasi, da cui l’osservatore poteva trarre spunto per costruire una narrazione. Ora vorrei tornare a sceglierli».
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