Lettori trasformati in spettatori: più che incontri letterari, una tapparella rossa d’inchiostro, al Salone del Libro di Torino. Niente scrittori, o quasi, ma divi e divetti dello spettacolo e della tivù. Più che una Fiera del Libro, una trasmissione di Fabio Fazio con cervelli al solito collegati in differita. Le frequenze di chi visita il Salone del libro non sono quelle cardiache, ma quelle di esseri umani con antenne di ricezione al posto di occhi per leggere. Non a caso si vanno a “vedere” gli incontri, non ad ascoltarli. Le vere opere d’arte non sono i libri e neanche i vari interventisti e ospiti: le vere opere d’arte sono i visitatori. Neanche l’astrattismo più estremo potrebbe immaginare, dietro gli stand di editori dipinti da Grosz, dietro le “letteraturine” che accompagnano ogni editore (più vicine al cubismo che alle linee del razionalismo), una visione pittorica così devastatamente astratta. La vera nuova Biennale di Venezia si è trasferita al Salone del Libro: neanche Cattelan potrebbe ritrarre esseri umani così impiccati all’arte del marketing come l’albero della cultura della fiera di Torino. Capolavori viventi sciamano per i padiglioni desiderosi di farsi vedere, a loro volta, un’altra volta, nella speranza di incontrare qualcuno dei loro eroi format(o) tinello. Il Salone del Libro è un’opera d’arte: un’action painting, una fotografia della Beecroft, un quadro uscito dalla testa di Basquiat che incontra dopo una sbronza Salvator Dalì. Più che una fiera del Libro, la Fiera del Libro di Torino è una radiografia sociale. Dovrebbero girare il Grande Fratello, con telecamere 24 ore su 24. Perché anche qui più che lettori, ormai arrivano (s)comparse.
Gian Paolo Serino