Lou Reed è morto. Sul pavimento dello studio di Graziano Folata (Rho, 1982; vive a Milano) c’è quella che potrebbe essere la sua maschera funebre. Omaggio inconsapevole, premonizione funesta realizzata prima della notizia della morte. Sono a Belgrado, dove l’artista sta trascorrendo un periodo di residenza, come vincitore di una borsa di studio del Premio Combat, che trova conclusione in una mostra personale presso Remont, associazione indipendente con sede nella capitale serba.
“I baci più dolci”, la scultura di creta bianca che dà titolo all’esposizione, avrà le labbra macchiate del rosso di un melograno, che virerà in porpora, poi in blu.
La contaminazione tra materiali organici, deperibili e inorganici, tra stabilità e instabilità è una delle caratteristiche del tuo lavoro.
«Eseguo delle composizioni nell’intento che queste si aprano a una nuova visione, nella misura in cui l’indagine sui materiali e sull’apparizione dei fenomeni possa registrare un’espansione della ricerca nel territorio dell’invenzione, lontana dall’uso tecnico, forse più aderente alla “scoperta”, un rinnovamento costante del gesto che si accompagna a un’infinita impermanenza, in questo modo credo di poter donare una sorta di vitalità alle opere, agli oggetti che creo, con la speranza nella necessità della continua ri-creazione che queste costruzioni intellegibili possano sopravvivermi».
Le tue opere sono quindi connotate da una forte relazione con il tempo e con il suo trascorrere?
«Certamente, è il tempo uno dei protagonisti principali di tutto il mio fare, se pure esso eserciti la sua influenza, a volte in maniera più sotterranea, altre esplicitamente ponendosi come vero e proprio agente determinante. Sottrarre bellezza al tempo e tentare di sottrarsi a esso superandolo, compiendo un atto artistico è la mia aspirazione maggiore, saperne dosare le parti e concentrarsi, per averne una coscienza maggiore e più ampia, credo che sia questione di sensibilità e identità in maturazione».
Il tuo soggiorno a Belgrado ha influenzato la tua ricerca artistica? Nella tua poetica c’è una profonda attenzione anche alla componente linguistica, alla complessità semantica. In che modo questo elemento si è modificato, vista la necessità di comunicare e relazionarti in una lingua diversa, che non comprendi e non padroneggi?
«Sì, probabilmente questa esperienza mi ha cambiato, ma devo ancora capire se il cambiamento avverrà in forma di liberazione, per cui la comunicazione avrà un carattere sempre più espressivo una volta sciolto questo vincolo del linguaggio. Oppure potrei finalmente aver imparato i tempi dei silenzi e delle pause, “resistendo” sotto la necessità di un’espressione che mi ha richiesto una naturale semplificazione di forma per un’efficace comprensione reciproca».
Spesso usi anche il medium fotografico, che consideri uno strumento, non un fine. Non hai l’occhio del fotografo, mi dicevi. Seppur molte tue opere abbiano una spiccata componente scultorea, la tecnica non rappresenta un vincolo, ma una possibilità. Oltre alla trasformazione e all’evoluzione fisica della materia, quindi del lavoro, c’è una forte volontà di sperimentazione.
«Condivido con i fotografi l’attesa e la scelta del tempo giusto, ma non quell’esercizio di manifestarlo come coincidente con la sottrazione del reale o della sua analisi in veste di immagine, di cristallizzazione del tempo nel suo fluire, degli accadimenti immobilizzati. Il mio è sempre un tentativo di compiere un gesto scultoreo, anche con la luce, una materia che diviene per me, sostanza metafisica, in quanto capace di costruire il mondo, fenomenicamente, concreto e illuminato.
Il gesto è un gesto di formazione, di qui la natura sensibile della forma».
Passi dal marmo alle banane. Nei titoli, nell’accostamento di materiali diversi e nelle immagini create si può leggere una componente ironica. In che modo ti relazioni con questa caratteristica?
«Questa proprietà è naturale, non è un artificio, non ricerco il gesto sensazionale o il sarcasmo o l’umorismo, ma cerco di promuovere in me uno sguardo libero, che si spende per non caricarsi di pregiudizi. È in questo caso che la dimensione dell’ironia sta assumendo un peso specifico determinante nel mio lavoro, anzi essa è in stretto rapporto con il peso delle mie immagini, l’ironia può essere capace di rendere leggeri i marmi e gravi le banane».
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