Suonano corno e cornamusa. Cantano in coro schiere di angeli in cielo.
Il silenzio abita una terra arida, scavata da rocce a gradoni, di giottesca memoria.
La scena è immobile, come fermata nel tempo e resa innaturale da un silenzio profondo.
È il silenzio di Maria che prega, contempla e adora quel Bimbo, che è anche il suo Dio.
E il silenzio di Maria pare assorbire ogni cosa, anche il suono di corno e cornamusa, il Gloria degli angeli, la preghiera di Giuseppe, quella dei pastori e dei santi a lato.
A tale muta intensità corrisponde lo splendore di una luce speciale, che dal volto stupendo della Vergine discende al candore del Bambino e lì pare sostare come giunta alla sua meta.
Melodioso silenzio di luce bianchissima, come sorgente da vita verginale, alba improvvisa, che scava nella penombra e ci invita a restare.
Qual volto ha dipinto fra’ Filippo! Profilo stupendo di squisita bellezza, intrisa di luce e luce essa stessa. Tutto è in quel volto su cui il nostro sguardo indugia, seguendo adagio il profilo prezioso.
E il Bimbo che giace a terra, sul manto di Lei, appena fasciato di candido lino, col gesto che chiama e invita la madre, e forse anche noi, a dargli calore, diventa il centro di un caso nuovo e tutto da indagare in questa iconografia della Natività di Filippo Lippi, che vorremmo da ora scostare dal suo tema stesso, non più presepe o racconto evangelico, ma adorazione, intensa e totale adorazione del Bimbo appena nato. Tutto si concentra qui, fra Madre e Figlio, dove la luce si accende di chiarore senza tempo e memoria. Luce e pensiero di un frate pittore, qui semplice uomo che avverte il mistero di un amore totale che tutto esclude, geloso di sé, e tutto accoglie nell’estasi mistica, dove l’umano e il terreno diventano visione.
Timete Deum quia venit hora iudicii eius.
Ma perché san Vincenzo Ferrer fa risuonare in tale silenziosa armonia il monito apocalittico della sua predicazione? E perché il monaco domenicano è nella scena del Lippi?
E ancora perché il san Giorgio a sinistra, bellissimo e ammantato di rosa, non ha ai piedi il terribile drago?
Timete Deum quia venit hora iudicii eius.
La mistica visione si dilata all’interno del senso profondo della predicazione di san Vincenzo Ferrer, tutta da leggere con gli occhi turbati di un frate domenicano pittore, che ha osato mescolare l’amor sacro e l’amor profano. Il sacro e l’umano si incrociano in questa storia meravigliosa,ma davvero difficile da dire, da pensare, da vivere. E se è noto che Lippi amò una monaca stupenda e la rese madre; e se è noto che questa amata e il suo bambino son divenuti entrambi modelli per la scena più sacra che l’arte possa narrare, come non cogliere in tutto ciò non solo il dispendio di tanta bellezza, ma anche che in fondo l’amore umano, se vero e profondo, contiene in sé un sovrappiù di mistero che lo rende sacro?
È vero, si sa, questa è la storia di Cristo e non è bene, anzi è profano, mescolare cose fra loro distanti, diverse… ma non per Filippo frate e uomo, che pure di tale intangibile diversità è tanto convinto da dire a sé, prima ancora che al mondo: Timete Deum quia venit hora iudicii eius!
Rimbomba il monito di san Vincenzo come un rombo di cannone e squassa la storia umana e fragile dell’uomo qualunque. Ma non tocca quella sublime che Lippi racchiude in alveo di luce preziosa e incastona, quasi fosse un cammeo, nella vicenda più ampia e più misera delle umane avventure.
Doveva Filippo inserire Vincenzo, così la committenza chiedeva dopo la canonizzazione del santo domenicano; doveva e forse voleva ridire a sé stesso che non esiste amore, umano o divino, che trovi il suo senso se non nel mistero totale del Cristo, che nasce e che muore e infine risorge per giudicare i vivi e i morti. Questo il suo credo, questo il nostro credo e il senso della predicazione di Vincenzo Ferrer, che infatti non guarda Maria che adora il Bambino, ma la mandorla in cui è Cristo risorto, mentre il suo sguardo si perde nella nuova visione.
Mescola fra loro cose diverse Filippo pittore e indugia su questa apocalittica visione, nella quale risplende sublime la prima. E accanto a essa, quasi a suggellarne l’unità, non pone san Giorgio, come sempre si dice, ma, vorremmo proporre, lo stesso arcangelo Michele, che nell’Apocalisse di Giovanni (12,7-8) conduce gli angeli nella battaglia contro il drago, rappresentante il demonio, e lo sconfigge.
Ma dove le ali dell’arcangelo Michele? San Giorgio non aveva il drago,ma un arcangelo senza ali?
Si potrebbe dire che non si può avere tutto,ma in fondo il problema è poco importante: Giorgio e Michele vincono il drago, e cioè il demonio e il male del mondo.
Timete Deum e adorate Cristo! Vivete senza peccare e ponete al centro la Chiesa e dunque Maria e il frutto del ventre suo.
Adorate uomini, insieme a Giuseppe, qui in ombra e raccolto in preghiera, non dormiente o muto astante, ma padre adorante di una paternità non sua,misteriosa presenza di un destino divino.
E mentre l’occhio si concentra sullo splendido profilo di Maria, cui giova il bianco pallore e il serico velo che discende dalla nuca sottile sulle spalle, fin quasi alle mani giunte in preghiera, posandosi appena su quel Bimbo che giace sul suo manto, illuminato da identico candore, si sposta di colpo quell’occhio, scorgendo appena le mani giunte di Giuseppe, sul libro aperto dal santo domenicano e su quel monito tremendo, che dalla vita appena sgorgata ad annunziare salvezza e pace, pare contrapporre il tema del Giudizio finale.
Un virtuale segno a V, piramide capovolta, obbliga il nostro occhio a tenere contemporaneamente nella mente presenti tre dati:Maria che adora, un Bimbo che è nato, un annuncio apocalittico.
Quali ragioni possono avere suggerito all’artista un allontanamento così radicale dall’iconografia già praticata nelle Natività di Firenze e Berlino e così corrispondenti ai temi delle Rivelazioni di santa Brigida? E quali ragioni stringono fra loro tre dati diversi e mai prima sommati nell’iconografia? Il padre domenicano, che alla destra del dipinto mostra il libro, leva lamano sinistra come a fermare tutto: si fermi l’immagine sul tema dell’Adorazione, perché sia chiaro che non può essere distolto, neppure per un attimo, dall’ammonimento tremendo: Timete Deum…
Ma come temere un Dio bambino, che teneramente si volge alla Madre?
Ma Gesù che nasce per la salvezza di tutti è figlio di Dio ed è Dio.
Morirà e risorgerà per giudicare i vivi e i morti. E la Sua venuta non può essere disgiunta da questo Timete, che dà voce tonante a un grande manifesto religioso, devozionale, teologico.
Cantano gli angeli in coro, i pastori suonano la cornamusa e il corno, altri inginocchiati adorano,ma lo sguardo è sul versetto biblico, che assume nell’economia del dipinto il tema di una nuova consapevolezza, quella che è già in Maria, quella che giustifica la presenza del santo guerriero, arcangelo o Giorgio che sia, difensore della fede, combattente per essa, testimone.
Delle Rivelazioni di santa Brigida ci resta l’idea di una Vergine inginocchiata e bellissima, che sul suo manto posa il corpicino da lei sgorgato, come un frutto, senza patimento o umano dolore, e poi posato a terra. Il gesto del Bimbo ha il senso di un umano richiamo, nella visione di santa Brigida, alla madre, che di lì a poco lo stringerà al seno e alla guancia, per amarlo teneramente e scaldarlo con il suo stesso calore. Poi lo porrà nella mangiatoia e insieme al vecchio Giuseppe lo adorerà. Ma Giuseppe è già qui seduto a terra, anch’egli adorante nell’iconografia dell’Adorazione calata nel silenzio di un paesaggio lunare, apocalittico davvero per l’intensificarsi del mistero stesso della nascita di Cristo e porgerlo così, come cosa nuova, alla nostra meditazione su una singolare tavola dell’Umanesimo toscano fra il V e il VI decennio del XV secolo.
Il tema dell’adorazione nella Natività di Filippo Lippi – di Paolo Biscottini, Direttore del Museo Diocesano di Milano (dal catalogo Silvana Editoriale di “Un Capolavoro per Milano: la Natività di Filippo Lippi”)
Note storico critiche
La tavola è frutto di una lunga elaborazione creativa; non nasce così come noi la vediamo: era più piccola e allungata, con la parte superiore terminante in una cornice centinata mistilinea. Il nucleo principale costitutivo era focalizzato sulla Madonna, sul Bambino e su san Giuseppe a guisa di tabernacolo. Strutturalmente il dipinto originale corrispondeva alle due assi centrali con le due traverse di sostegno soprastanti. L’aggiunta dei due santi laterali ha cambiato la sua impostazione da tabernacolo a pala d’altare, per cui sono state assemblate ai lati due assi uguali tra loro. La committenza domenicana aveva imposto un aggiornamento sul nuovo culto dedicato a Vincenzo Ferrer e gli aveva affiancato la giovanile figura del santo cavaliere di Cristo. Già al suo arrivo in galleria, nel 1867, era evidente lo stato precario della superficie, come se fosse stata sottoposta a un calore eccessivo, provocato non solo da cause organiche ma da un evento traumatico. Partendo dalla testimonianza del Vasari che vide l’opera in San Domenico a Prato, sappiamo che nel 1647 ci fu uno spettacolare incendio provocato da un fulmine che danneggiò il tetto ligneo a capriate e distrusse gli altari. In seguito la tavola venne trafugata dalle truppe napoleoniche (1810) e restituita ai frati nel 1817 senza clamore, infatti nel commento di Ferdinando Baldanzi alle opere del Lippi (1835) viene data per dispersa.
Il critico ottocentesco Cesare Guasti, su sollecitazione del padre domenicano Vincenzo Marchese, svolse delle accurate ricerche nel convento di San Domenico e questo è documentato da un carteggio dove annota che nel 1846 aveva ritrovato casualmente la tavola, aggiungendo che “fu male restaurato questo quadro, ma non però guasto, da un inetto del paese, e sta di presente nel refettorio. Ho pregato spesso questi Padri a levarlo di lì, e riporlo in chiesa, e spero che alla fine sarò esaudito”.
Nel 1867, dopo l’ultima soppressione dei monasteri, passò nella pinacoteca comunale dove venne esposta, nello stato originale, molto velata da colle e ossidazioni (Foto Alinari 10447), con un pesante intervento manutentivo di Domenico Fiscali (Brogi 14276; S.G.F. 95895 e 107516). Il Guasti descrive accuratamente anche le misure della tavola “larga braccia 2 e soldi 14 e mezzo e alta braccia 2 e soldi 11 e mezzo” che però non coincide con le misure attuali perché probabilmente era racchiusa da una cornice più larga. Secondo le indagini radiografiche, eseguite in occasione del restauro effettuato nel 1995 da Daniele Piacenti, nell’elaborazione della tavola inizialmente il Lippi aveva pensato di limitare l’opera al solo gruppo centrale, con un’elaborata cornice tricuspidale, ma successivamente aggiunse alla composizione le figure dei due santi, probabilmente per un mutamento nella richiesta dei committenti, e scelse per la tavola la dimensione quadrata della pala d’altare. Il soggetto del presepio tra san Giorgio e san Vincenzo Ferrer, scelto dai padri domenicani, si collega al culto con temporaneo legato al santo spagnolo, canonizzato solo a partire dal 1455 che presuppone una forte partecipazione popolare.
La tavola, ricordata dal Vasari (1568, ed. Milanesi 1906, II, p. 621, nota 2) nella chiesa di San Domenico, fu considerata tra le migliori opere dell’artista da Crowe e Cavalcaselle (Storia della pittura in Italia 1892, V, p. 178). Il van Marle ipotizzò una larga partecipazione di Fra’ Diamante, mentre il Berenson riconobbe di sicura autografia lippesca solo il disegno della testa della Madonna, del Bambino e delle mani di san Vincenzo. La testa della Vergine, nella sua elegante tornitura, ricorda il profilo della celebre Lippina degli Uffizi, con un’esecuzione più rigida e sommaria rispetto al disegno preparatorio del maestro. Già lo stesso Berenson (1938) pubblicò un disegno degli Uffizi (n. 152 E) raffigurante una testa di Madonna colta di profilo che metteva in collegamento con la nostra tavola, attribuendola a Fra’ Diamante. Il modello scultoreo e ben disegnato della testa della Madonna, ben più leggibile nella radiografia del dipinto, comunque lasciò un segno sulla generazione post-lippesca (Biagio d’Antonio).
Per Mary Pittaluga (1941) l’idea generale dell’opera è del Lippi, ma l’esecuzione e da ascriversi alla bottega e soprattutto a Fra’ Diamante, nel periodo in cui questi lavorava agli affreschi di Spoleto (1467-1469), sebbene appartengano al Lippi stesso le figure della Vergine e del Bambino che si ispirano alle celebri versioni della Natività affrescata nel duomo di Spoleto e alle Adorazioni, provenienti dal convento di Annalena e da Camaldoli, oggi conservate agli Uffizi e a Berlino, commesse dalla famiglia Medici. La tesi del Middeldorf (1957) che vedeva nella testa del san Giuseppe l’intervento del giovane Filippino è stata respinta per ragioni cronologiche, più coinvolgente supporre come il Ruda (1993) la collaborazione con il giovane Sandro Botticelli.
L’analisi delle opere dipinte nel periodo pratese del Lippi è indispensabile per chiarire questo metodo di lavoro allargato. Un apprendistato al disegno veniva riservato, in bottega, agli stessi allievi che sui supporti delle tavole disegnavano, a carboncino, dei volti e delle figure direttamente sulla preparazione di colla e gesso. Nel verso della tavola sono vergati in fretta studi di un nudo maschile, appena abbozzati a carboncino dagli allievi, secondo una consuetudine tipica della bottega per esercitare la mano.
Maria Pia Mannini
Conservatrice del Museo Civico di Prato