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Bevilacqua La Masa Edition: Palazzo Carminati
Salire gli scalini di Palazzo Carminati è un’impresa. Una volta arrivati alla vetta si viene, però, completamente ripagati della fatica.
La Fondazione Bevilacqua La Masa ospita qui sette degli artisti selezionati per lo storico programma di residenze a Venezia.
Rachele Maistrello
«Sarà difficile lasciare questo studio» mi dice Rachele Maistrello (Vittorio Veneto, 1986), mentre guardiamo insieme fuori dalla finestra. Bisogna salire ancora qualche gradino, per arrivare al suo atelier: un’enorme mansarda con una vetrata e due sedie a sdraio che danno sulla laguna. Alle pareti le fotografie del progetto realizzato per il premio Stonefly, “A Hero’s Life”.
«Si è trattato di un lavoro di arte pubblica dall’attitudine affine a “This Side of Paradise” che ho realizzato nel contesto di Art Around, al Museo di Fotografica Contemporanea di Cinisello Balsamo. Sono arrivata nel paese di San Gaetano di Montebelluna, dove ha sede Stonefly, e mi sono interrogata su quale fosse la percezione dell’azienda da parte degli abitanti. Ho deciso di usare la sensazione di estraneità che provavano i cittadini trasformando il luogo dello sconosciuto in luogo del possibile. Ogni giorno arrivavo in bicicletta, bussavo alle porte e invitavo chi mi apriva a lavorare con me: domandavo di inscenare delle fotografie che rappresentassero l’immagine mentale di loro stessi, creando all’interno degli uffici un set fotografico. È stata una forma di “invasione”, che ha permesso uno scambio reciproco. Le foto hanno un fondo di malinconia, ma sono scattate ricercando uno specifico criterio compositivo in modo che tutti coloro che hanno partecipato avessero una sorta di sanzione dignitosa e coerente dell’idea di se stessi».
Li hai aiutati a mettere in scena delle performance
«Mi sto spingendo sempre di più sul lato performativo: mi interessa il coinvolgimento delle persone in piccole performance che poi documento a livello fotografico. Anche il mio ultimo lavoro è una serie di performance private. La regola è molto semplice: ci deve essere una persona con il proprio animale domestico e il proprio computer in uno spazio aperto durante il plenilunio. È una nuova forma di heimat che nasce dal rapporto con il proprio computer; ovunque io sia mi basta prendere il mio portatile e mi sento a casa. È una nuova appartenenza. Il tuo animale domestico è la tua casa, ma non capisce questo processo, mentre la luna è l’unico elemento che rimane identico da qualunque punto di vista. Mi interessa fornire una coordinata geografica che però lo è solo in apparenza».
Lavori sempre per serie?
«Di solito lavoro in serie quando ho un modulo performativo da ripetere. È una forma di documentazione di una performance con una ricerca parallela sull’aspetto più legato alla rappresentazione. Spesso le due componenti sono divise: si lavora sul lato concettuale oppure su quello estetico. Per me invece sono unite e agiscono una sull’altra».
Il lato performativo non è sempre evidente
«Non sempre, ma è fondamentale per creare un sincretismo di fattori, per esempio in “Beyond reasonable evidence”, il lavoro in cui ho messo in relazione alcuni ritratti conservati in musei di arte moderna con i volti dei visitatori, a volte ho aspettato mesi. Mi piaceva che ci fosse una somiglianza non troppo esplicita, un richiamo a una genealogia. È un progetto che proseguirà nel tempo; il modulo compositivo è molto preciso e uniforma l’orizzonte temporale.
Un altro lavoro che porto avanti da tempo è il mio archivio di immagini, “Gears”. Sono fotografie apparentemente prive di legami tematici, classificate per tag personali o molto specifiche che creano un editing che si discosta da quello che potrei fare io a priori».
Vedo che è un progetto dal 2007 al 2013
«In verità è in corso. Sono tutte foto scattate in analogico, contrariamente ad altre. Sono forme di epifanie visive».
In contrasto con gli elementi della posa e della costruzione della scena, presenti in altri lavori
«Dipende dal rapporto tra la mia immaginazione e il mondo esterno oppure da un’interazione che avviene esclusivamente nel privato».
In che modo scegli se usare l’analogico o il digitale?
«Indubbiamente il mezzo che usi porta a un approccio diverso. A livello performativo si usa spesso l’analogico o un mezzo che poco si lega alla qualità dell’immagine, come l’iPhone; nel caso di “A Hero’s Life”, invece, mi interessava ribaltare questa abitudine e arrivare a delle immagini un po’ patinate, da digitale. Con “Gears” lavoro in analogico, mi viene più spontaneo, lo faccio per non vedere subito le immagini, quasi per dimenticarmene e riscoprirle solo dopo. Non sono ossessionata dalla tecnica, l’intervento in postproduzione non mi dà fastidio e non sono una purista da banco ottico. Il mezzo però è importante in quanto legato all’idea; è l’idea che conta ed è l’idea che fa scegliere un linguaggio piuttosto che un altro».
Dopo la residenza alla Fondazione Bevilacqua La Masa?
«Ho diversi progetti in programma ma nessuno mi legherà stabilmente a una città. Prima ero a Zurigo, ma io amo l’Italia e mi piacerebbe restarci ancora un po’ di tempo. Sento la vicinanza a un modello mediterraneo, che è difficilmente teorizzabile, ma che io percepisco»
Questo dipende anche dalla volontà di lavorare con il coinvolgimento di estranei?
«Voglio agire su più livelli in ogni contesto e cerco di arrivare a un’immagine immediata, che consenta allo stesso tempo una discesa in profondità.
Per la mostra finale degli Atelier ho preparato un lavoro con il guardasala Umberto: ci siamo filmati mentre eseguivamo degli esercizi di sostegno sensoriale e fisico, in una spiaggia poco distante dalla Fondazione. In questo lavoro c’è il richiamo all’iconografia classica, la pietà è ben visibile, la deposizione si nota solo ad uno sguardo attento e altri rimandi sono ancora più profondi, ma parla comunque a tutti. Ho ricercato un dispositivo che permettesse all’aura dell’opera di esistere ma che la ribaltasse, allo stesso tempo, incorporando ciò che serve normalmente all’opera stessa per esistere. Mi sono servita del contesto per invertire le prospettive e fare della circostanza un approdo e non un punto di partenza»
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