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Marco Sbarbati in Piazza Duomo a Milano

Marco Sbarbati

È decisamente un periodo molto importante per Marco Sbarbati, cantautore marchigiano di nascita ma bolognese d’adozione da un punto di vista artistico. E’ stato scoperto in piazza da Lucio Dalla poco prima della sua scomparsa (hanno collaborato per una colonna sonora) e in un Hangout nel 2011  da Caterina Caselli, che lo ha accolto sotto la sua ala protettrice.

È uscito il 29 aprile scorso l’EP omonimo per Sugar  e dal 5 maggio Marco è in giro per tutta l’Italia con il tour #InViaggio, che – come l’hashtag suggerisce – prende il suo nome da un contesto virtuale, ovvero l’account Instagram in cui Sbarbati pubblica abitualmente le foto scattate durante le sue peregrinazioni musicali.

Da sempre cantante di piazza, per Marco sarà molto particolare l’occasione di questa sera a Milano: si esibirà infatti nel contesto dello “Spettacolo della Croce”. Si tratta di una sorta di dramma sacro ma moderno sulla Passione, strutturato in diverse tappe simboliche intitolato “Venite a vedere questo spettacolo”. Sul palco si alterneranno grandi nomi della cultura, del cinema, del teatro e della musica. Al centro della piazza, vi sarà la croce con la reliquia del Santo Chiodo, solitamente conservata nell’abside del Duomo.

Marco Sbarbati

Abbiamo incontrato Marco per fargli alcune domande.

Il tuo inglese è perfetto, ma in italiano la tua voce diventa immediatamente riconoscibile. A tratti ricorda Carmen Consoli, soprattutto nel modo di modulare attorno alla melodia, ma certamente ha una personalità immediata e forte, come pochi altri hanno, secondo me. Il tuo punto di vista riguardo al cantare in italiano ora qual è?
Cantare in italiano è per me una cosa totalmente nuova, e quindi è una grossa sfida. Quando ho iniziato a fare musica – anzi, ancor prima, anche da bambino – ascoltavo soprattutto musica anglofona. Mi piaceva (e mi piace) molto la lingua inglese, e ancor più mi piaceva il suo suono accompagnato da una melodia. Crescendo, mi sono avvicinato all’italiano perché è la mia lingua e certamente tramite questa riesco a esprimermi meglio; e poi, oggettivamente, è una lingua bellissima.

Io ascolto molti cantautori, che scrivono testi splendidi: Guccini, ad esempio, non ha certo l’estensione di un Mengoni, ma è un poeta. Purtroppo, invece, la musica pop in italiano trascura un po’ i testi, che sono spesso banali. La perfezione sarebbe non sacrificare né il testo né il cantato, trovando il giusto equilibrio tra le due cose: ecco, la Consoli – che citavi – lo fa, e bene, ma non è facile, e certamente per me è una sfida.

Ho ascoltato alcuni brani del tuo EP “Backwards”, cercando di capire l’effetto che facesse la formula atipica di un album bilingue. La mia idea me la sono fatta (ovvero: se la fa chi ha una forte identità personale e sa scrivere e cantare bene in entrambe le lingue, può funzionare). Qual è la tua impressione?
Ho sempre voluto fare un album in due lingue. Ora, con la musica scaricabile, si tende spesso ad acquistare i singoli a discapito di un intero album, ma io ho comunque concepito il mio EP come un discorso unico, e anche con le due lingue volevo rappresentare il mio mondo. Forse sulle prime ascoltare i miei dischi può fare uno strano effetto, perché io stesso mi rendo conto che la mia voce viene percepita in un certo modo quando canto in inglese mentre invece in pezzi come “Se” cambia non poco. Il rischio potrebbe essere quello di perdere un po’ l’apparente coerenza del sound, ma è decisamente un rischio che sono pronto a correre.

 Una tra le caratteristiche principali del tuo mentore Lucio Dalla è la sua difficile collocazione nell’ambito di un genere preciso e definito: partito da jazzista, attraverso il beat e la canzone d’autore, fino al pop ma anche alla lirica, sono sempre stati molti gli elementi di contaminazione presenti nella sua opera. La sensazione di fronte al tuo lavoro è che anche tu abbia ascoltato cose piuttosto eterogenee, e sia finito col farle convergere in un ambito personale. Mi sbaglio?
Secondo me la bellezza di Lucio Dalla era proprio quella: saper evolversi. Tanti cantanti, per non rischiare, replicano indefinitamente le stesse cose. Capisco che possa dipendere da molti fattori, a volte la casa discografica o a volte altri vincoli, ma la forza di Lucio è stata proprio quella di riuscire a spaziare un po’ in tutti i generi che apprezzava e rendeva propri, rinnovandosi sempre.  Anche questo per me è molto importante: non vorrei mai fossilizzarmi, in ogni lavoro vorrei sondare sempre territori nuovi. Io ho ascoltato ed ascolto tuttora veramente tanta musica diversa, e mi piacerebbe riuscire a far sì che tutto quello che ho sentito possa rielaborarsi ma anche contaminarsi nei miei lavori.

Ascoltando Backwards, ho colto alcune reminescenze dei REM e di Michael Stipe, ma soprattutto dei Placebo nella seconda parte, quando sale il ritmo. Dici che ho preso una cantonata? E quali sono i tuoi punti di riferimento musicali?
Di paragoni se ne fanno sempre, e mi hanno detto veramente di tutto. Quello coi Placebo non mi è nuovo. Personalmente ci vedo anche un po’ i Mumford & Sons. Diciamo che è impossibile non ispirarsi ad altri cantanti, chi lo sostiene sbaglia, perché anche quando non lo vogliamo siamo inconsciamente ispirati da altra musica.

A me piacciono anche i cantautori americani, James Taylor, Joni Mitchell – che è canadese -… Tra i più recenti mi piacciono molto Bon Iver e Julia Stone. Mi piace ascoltare anche gruppi piuttosto di nicchia. E oltre alle cose che apprezzo e conosco, grazie a Spotify e simili riesco a scoprire costantemente nuove cose molto belle. Tra gli italiani mi piacciono i cantautori: Guccini, De Gregori, De Andrè, Dalla… e anche Carmen Consoli. Tra i nuovi mi piace Dente, che è anche simpaticissimo.

A proposito del tuo passato da busker… Girando su youtube, trovo dei talenti incredibili che la gente riprende per la strada. Musicisti che altro che un talent… sia dal punto di vista tecnico, che artistico. Per quanto riguarda il carisma, per strada di artisti che meritano ce ne sono tanti. Non trovi perfino strano che ancora nessuno abbia pensato a una formula anche televisiva e discografica per trovarli e valorizzarli?
Onestamente, spero proprio che una formula di reality per gli artisti da strada non la facciano mai. Non vorrei si perdesse quell’idea di suonare in strada e per la strada, che il tutto si snaturasse e diventasse un’altra cosa. Penso che in questo senso il bello sia proprio l’andare in piazza per sentire la musica. Altrimenti si perderebbe ogni magia ed ogni spontaneità.

Mi hanno detto che ogni tanto vai ancora a suonare in piazza, a Bologna, nonostante tu stia lavorando parecchio e abbia già fatto cose importanti.
Certo! Io ci tengo davvero molto, appena posso vado. Purtroppo ora ho rotto l’amplificatore e devo trovare il tempo di ripararlo, ma ci tornerò quanto prima.

E a proposito di piazza… So che questa sera canterai in Piazza del Duomo, a Milano, per lo spettacolo della Croce.
Cominciamo col dire che negli immediati dintorni ho già suonato: in Corso Vittorio Emanuele avevo – anche lì! – problemi con l’amplificatore e quindi è stato un disastro totale. Però la volta dopo, in Piazza Cordusio, è andata sicuramente meglio…

Certo, da quelle parti cambia decisamente lo scenario e con esso il pubblico: si tratta del cuore della Milano turistica e soprattutto dello shopping, ci sono un sacco di persone che vanno di fretta e non si fermano come altrove ad ascoltare la musica. Col tempo, però, si impara a individuare le zone migliori.

Questa sera mi hanno invitato a suonare Hallelujah di Leonard Cohen: è uno dei pezzi che faccio regolarmente in strada, da sempre, e quindi mi sono detto “perché no?”. È una cosa del tutto diversa, ma anche per questo assolutamente da provare. Poi ti dirò com’è andata!

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