Riportiamo l’intervento di Salvatore Settis su La Repubblica del 13 maggio 2014:
Nella discussione sulla funzionalità del Ministero dei Beni Culturali e in particolare delle Soprintendenze, di recente rinfocolata da un documento del governo, colpiscono tre costanti. Primo, quasi tutti gli intervenuti sembrano credere che in quel Ministero si annidino vizi e misfatti specialissimi, di cui la pubblica amministrazione è per il resto esente, e pertanto meritevoli di più accanito cannoneggiamento. Secondo, quasi tutti sono d’accordo sull’urgentissima necessità di riforme, ma quasi nessuno si degna di precisare quali. Terzo, si sprecano le battute sulla natura “ottocentesca” della struttura, quasi che fosse ibernata da un secolo; e si tace sul fatto che quel Ministero è esso stesso il frutto di una riforma, essendo stato scorporato dalla Pubblica Istruzione nel 1975; e che di riforme da allora ce ne sono state cinque; la sesta, iniziata da Bray, è ora in lista d’attesa. Se qualcosa non funziona, dunque, non è perché siano mancate le riforme, ma perché ce ne sono state troppe.
Su queste riforme anche recentissime, i sermoni dei finti esperti non spendono una sillaba, né dicono una banale verità: che prima di farne una nuova bisognerebbe chiedersi con quali fini e aspettative si siano fatte le altre, e perché non abbiano funzionato. Ma questo è il Paese (con la “p” sempre meno maiuscola) dove l’improvvisazione la vince sull’analisi, l’approssimazione sulla competenza. Una delle ipotesi che ora si fanno è di modificare la struttura del sistema, con soprintendenze territoriali distinte per ambiti, creando soprintendenze “miste” con un solo dirigente a capo di ciascuna. Difficile dire se è giusto o sbagliato; quel che è certo è che in Sicilia, unica regione autonoma in questa materia, le soprintendenze miste ci sono da decenni, e la prima cosa da fare sarebbe studiare che cosa ha funzionato di quel sistema e che cosa no. Qualcuno lo sta facendo? Non risulta. Meglio tirare a indovinare.
Il divorzio della Sicilia dal resto d’Italia sul fronte dei beni culturali è la prova provata che la creazione stessa del Ministero fu fatta in modo confuso. Che senso ha creare un apposito ministero per un ambito tanto centrale per l’Italia ed espellerne la regione più vasta, e tra le più ricche di patrimonio culturale? Eppure il Ministero fu istituito il 29 gennaio 1975, e la Sicilia gli fu sottratta il 30 agosto di quell’anno, senza che l’allora ministro Spadolini aprisse bocca. Si vede così che il nuovo Ministero rispondeva a criteri di opportunità politica, e non all’esigenza primaria di attuare la Costituzione, che pone la tutela del paesaggio e del patrimonio artistico della Nazione fra i principi fondamentali dello Stato (art. 9), e dunque impone un identico livello e criterio di tutela in tutto il territorio nazionale. Da allora, i segni del degrado si sono moltiplicati, diventando sempre più visibili via via che il Ministero veniva depotenziato da irresponsabili tagli di bilancio nonché da un blocco delle assunzioni, che ha ridotto i ranghi degli addetti accrescendone l’età media e impedendo un sano rinnovo con l’immissione di giovani, esperienza, entusiasmo.
Intanto, leggi e leggine rendono sempre più complesso il compito delle Soprintendenze, senza dar loro né nuovi mezzi né nuovo personale per farvi fronte. Perciò molte singole lagnanze su questo o quell’episodio di disfunzione saranno anche fondate, sia perché tutti possono sbagliare sia perché è più facile sbagliare quando non si hanno i mezzi per far bene: ma un errore giudiziario non giustifica l’abolizione della magistratura, una diagnosi sbagliata non vuol dire che si devono chiudere gli ospedali, dieci cattivi insegnanti non generano la proposta di abolire la scuola. Perché, dunque, a ogni vera o finta disfunzione delle Soprintendenze qualcuno ne chiede l’abolizione?
Punto di partenza dev’essere la funzione civile del patrimonio culturale secondo la Costituzione: e cioè come bene comune dei cittadini, attributo della sovranità popolare, strumento di eguaglianza e di promozione della solidarietà sociale e della dignità personale. Tutto il resto (compreso il turismo) viene dopo: il patrimonio è in primo luogo dei cittadini e per i cittadini. Perciò le Soprintendenze non sono superfetazioni burocratiche, bensì istituti di ricerca sul territorio, di conoscenza del patrimonio e dei paesaggi, di protezione della memoria storica, di custodia dell’anima stessa del Paese. Se questo è, tre sono le più urgenti riforme: rimettere questo tema fra i più meritevoli d’investimento pubblico, e non fra gli ultimi (dunque, non improvvisare riforme solo perché obbligati da una qualche spending review); riaprire le assunzioni sulla base del merito, cercando altissime competenze specifiche, tecnicoscientifiche e gestionali; infine, assicurare la completa indipendenza dei funzionari dalla politica, facendone una sorta di magistratura del territorio.
Il recente documento del governo non va affatto in questa direzione. C’è da augurarsi che, quando parla di «abolire enti che non servono più», le Soprintendenze non siano tra questi; ma certamente ad esse si riferisce il punto 30 («accorpamento delle Soprintendenze e gestione manageriale dei poli museali»), che fa riferimento alla consueta mitologia, ignota al resto del pianeta, secondo cui tutti i manager (comunque definiti) sono efficienti, e nessuno storico dell’arte può esserlo mai. Altri punti del documento (21: «un solo rappresentante dello Stato nelle conferenze dei servizi»; 39: «unificazione della modulistica di edilizia e ambiente») sono altrettante bombe a orologeria che potrebbero impedire qualsiasi tutela del territorio.
Perché i funzionari delle Soprintendenze, non dimentichiamolo, non sono opachi burocrati passacarte. Sono, o meglio devono essere o diventare, i custodi del futuro. Perché, se non sapremo affidare in mani competenti i nostri tesori più preziosi, saranno le generazioni future a pagare i costi della nostra insipienza di oggi. Nelle sue dichiarazioni al Salone del Libro di Torino, il ministro Franceschini se ne è mostrato ben consapevole. Ci auguriamo che la sua voce possa prevalere nel governo Renzi, dove le opinioni opposte non mancano.
(13 maggio 2014)