«Ti mando questa bambinata. Fanne quello che vuoi, ma se la pubblichi pagamela bene per invogliarmi a seguitarla». In fondo, la prima bugia di Pinocchio la racconta proprio il suo creatore, inviando a Martini il principio della storia con queste due righe di svogliata presentazione.
La verità è che alla fine quel libro ha reso lui e il suo personaggio fra gli italiani più famosi del mondo, e nel 1999 persino a un asteroide è stato dato il nome del celebre burattino di legno che faceva marachelle e raccontava una bugia dietro l’altra.
Ma nella leggenda di Pinocchio, come sempre capita, i bugiardi più grandi sono parecchi altri e molto più pericolosi del suo protagonista. Aveva ragione Carlo Goldoni: «Le bugia sono per natura così feconde, che una ne suol partorire altre cento».
Non stupitevi troppo se Pinocchio ha fatto un mucchio di figli. L’autore stesso si firmò con un soprannome, perché come sanno tutti il vero nome di Collodi è Carlo Lorenzini, scrittore umorista abbastanza fortunato, che viveva in una splendida casa fra le ville medicee, sulla prima salita di Firenze, proprio vicino al grande giardino dove oggi è insediata l’Accademia della Crusca.
L’Italia a cui si rivolgeva, quell’Italia appena nata di fine 800, non era un Paese illuminato che ricercava e conservava la sua lingua, ma una terra di contadini, molto povera e profondamente ignorante, con il 70 per cento di analfabeti.
C’è un altro museo che racconta quel mondo, non troppo distante dalla casa di Via della Querciola dove Collodi scrisse Pinocchio, a Sant’Agata del Mugello, il «Museo di vita artigiana e contadina» (con personaggi in movimento), che raccoglie più di 60 personaggi costruiti con un telaio di legno all’interno del quale ci sono alcuni motori di recupero ricoperti di cartapesta e rivestiti con abiti di stoffa secondo la foggia dell’epoca.
C’è il calzolaio che batte il martello e risuola le scarpe, c’è l’arrotino, c’è il fabbro, ci sono i contadini che torchiano l’uva per far sgorgare il mosto, o che muovono la trebbiatrice o portano le uova al castello, i carabinieri con il pennacchio e l’ubriaco. In cucina, la nonna fa il gomitolo, e la mamma prepara la sfoglia col mattarello.
Quel tempo, che sopravvive nella memoria, ha qualcosa di melanconico e bugiardo insieme, perchè in fondo forse non era così bello come appare nei ricordi.
Pinocchio nasce come queste figure create dalla nostalgia. Collodi doveva scriverne 15 puntate sul «Giornale per i bambini», fino alla morte del protagonista. Così accade.
Il primo capitolo esce il 7 luglio del 1881. E’ senza disegni e si intitola «La storia di un burattino». Quando finisce, sono talmente tante le lettere di protesta, che Collodi è costretto a farlo rinascere e a continuare. Cambia titolo, diventa «Le avventure di Pinocchio» e per la prima volta fa ricorso all’illustrazione.
Il disegnatore è Ugo Fleres, che fa sei schizzi, ma, quando a febbraio esce il libro, le immagini sono di Enrico Mazzanti, che è grande amico di Collodi e che forse traduce davvero nei tratti l’ispirazione dell’autore.
Nel 1895 siamo già alla decima edizione, e in un Paese di analfabeti è un trionfo. Nel 1901 esce la diciottesima, quando Carlo Chiostri dà l’immagine definitiva di Pinocchio, con il naso lungo e puntuto dei bugiardi e la magrezza estrema delle sue arti finte. Carlo Lorenzini è già morto, da 11 anni.
La sua creatura, invece, è destinata a vivere in eterno. E a creare figli, figliastri, e persino epigoni, trascinando anche il suo autore in questo viaggio parallelo fra una bugia e l’altra.
Così, con l’avvento del fascismo, Pinocchio viene subito adottato come un modello da trasmettere ai balilla: è vivace, molto birichino e coraggioso, come i giovani ribelli in camicia nera e manganello. Nel primo racconto di queste Pinocchiate, «Avventure e spedizioni punitive di Pinocchio fascista», prende di mira i comunisti, con scherzi sempre più crudeli.
Qualche anno dopo, nel 1927, sarà il ragazzo burattino che cerca di convincere i suoi compagni di giochi a entrare assieme a lui nelle file irregimentate dei balilla, fino a diventare razzista e volgare in «Pinocchio istruttore del Negus» del 1939.
Due anni dopo, assieme a Pinocchio, i fascisti recuperano anche Collodi, ritrovando nelle sue biografie di Cavour e di altri protagonisti del Risorgimento, la prova del suo spirito nazionalista e precursore. Per forza di cose a questo punto, il suo burattino non può che finire pure nella Repubblica di Salò, ne «Il lungo viaggio di Pinocchio», del 1944.
Lo storico Luciano Curreri dice che se fosse stato vivo Carlo Lorenzini non avrebbe certo gradito tutti questi accostamenti. Il fatto è che, però, Pinocchio è diventato molto più che una semplice «bambinata» da leggere, come lo presentava l’autore al suo direttore.
Ogni Paese che l’ha adottato, se l’è ricostruito a sua immagine e somiglianza. E in America, anche Walt Disney l’ha rivoluzionato: gli ha fatto indossare un buffo e incongruo costume tirolese completo di cappello, calzoncini di cuoio e gilet, oltre al papillon e ai guanti bianchi.
E’ paffuto, ha il naso piccino, il corpo ben proporzionato e incarna, con i suoi occhi azzurri e il sorriso beato, un ragazzino simpatico e carino, alla Tom Sawyer, e quasi più brillante di lui, così diverso in questa rappresentazione da quella dei disegnatori italiani, che ne raffiguravano una certa insolenza nella vivacità inquieta delle pupille e nella gravità quasi costante dell’espressione.
Non importa quale fosse quello vero. La bugia, a differenza della verità, è una fantasia: chiunque se la può ricreare. In questa leggenda costruita attorno alla bugia perché stupirsi che alla fine ognuno racconti la sua?
Nell’archivio della Fondazione Collodi, che raccoglie le tremila edizioni di Pinocchio pubblicate in 86 paesi, da quell’egiziana all’etiope e alla rumena, uno potrebbe accorgersi che la bugia ha davvero tante facce.
Gli americani ne fecero due versioni opposte: quella del 1914, abbastanza simile al modello italiano, e dopo gli Anni 30 quella di Disney.
Ma la Cina Popolare di Mao Tse Tung ha incredibilmente sposato quest’ultima. Perché quello che conta di più è l’utilità della bugia. E, come diceva Mark Twain, «una bugia fa in tempo a viaggiare mezzo mondo, mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe».
3 Commenti
Caro Pierangelo–Ho letto il Suo discorso e Lei ha molte cose da dire riguardo Pinocchio e l’utilita’ della bugia. Ma il Suo inglese non e’ buono, e di tempo in tempo, le Sue idee diventono perdute. Se vuole, posso tradurre l’articolo in buon inglese. Sarebbe un piacere. Possiamo darci del tu? Tu puoi mi scrivere all’indirizzo sopra.
Studio italiano da molti anni ad un posto che si chiama “Casa Italiana” qui negli Stati Uniti. Stiamo leggendo ora Le Avventure di Pinocchio. Sto preparando una presentazione sui temi principali di Pinocchio — il viaggio, la bugia, e la morte. Quindi, ho una grande interessa in questo soggetto.
Michael
I see the site has translated my Italian response into bad English as well. I hope you see the Italian original.
Michael
Hi Michael, our translater is approximate. It just for understand the general sense of the articles. But we have too one page with original articles in english. See here: http://www.artslife.com/category/english/
If you want translate for us this article of Pierangelo Sapegno we can put it in this page English News
And if you want write about cultural events for us -from the United States- we’ll be very happy!!
Ciao!!