Quello che resta del Nepal dopo il 25 aprile è tutto il dolore della vita.
Non è solo il paesaggio trasformato a darci l’immagine di quel terremoto, con i suoi monumenti distrutti, i templi e i simboli, come la torre di Dharahara, a Kathmandu, 9 piani e 62 metri di altezza quasi puntuti per arrivare fino al cielo, patrimonio Unesco dell’umanità dal 1979, rasa al suolo da una scossa, seppellendo in un attimo sotto le macerie la sua storia e quella di centinaia di persone, che avevano solo la loro, invece, così normale, così banale, come quella di tutti noi.
Secondo la NASA, l’Everest s’è abbassato di due centimetri e mezzo e Kathmandu di un metro, ma dopo essersi alzata, durante il sisma, addirittura di un metro e mezzo.
La mutazione del paesaggio è dentro le sue viscere, oltre che in tutti quei palazzi polverizzati, nei templi disfatti in un attimo, nelle strade crepate e spezzate in due, nelle frane che sono rimaste negli occhi solo per nascondere al mondo tutto quello che c’era prima.
Earthquake-report.com, il più grande database sui terremoti, sostiene che i morti dovrebbero essere più di 9mila. Ma quando succedono queste tragedie, i morti sono comuni, come i militi ignoti delle guerre, come la vita che facciamo. La conosciamo solo noi. E quando moriremo sarà sparita.
I terremoti, in fondo, ci portano indietro nel tempo, nelle loro devastazioni così feroci. Distruggono tutto e restano nella testa come un incubo che ritorna. Rose Foley, funzionario dell’Unicef a Kathmandu, spiega che questo «tremore sembra non fermarsi mai, è come stare su una nave con il mare molto mosso».
Non puoi più scappare, non puoi andare da nessuna parte. Il terremoto finisce per chi muore. Ma è una tortura che continua.
Ram Shresta, medico del Dhulikel Hospital, a trenta chilometri da Kathmandu, danneggiato dal sisma e solo parzialmente agibile, ha raccontato la disperazione di questi giorni infiniti, quando quelli che devono salvare gli altri danno tutto se stessi senza farcela, troppe volte: «lavoriamo 24 ore su 24 fino allo sfinimento.
Solo che stanno finendo i farmaci, e il materiale di medicazione, gli antidolorifici e gli anestetici». Aumentano le infezioni. Bisogna affrontare seriamente il rischio di epidemie, senza averne i mezzi. Anche le amputazioni restano l’unica via percorribile per salvare alcuni pazienti. Ma senza anestesie bisogna buttarli su un tavolaccio, fargli bere l’alcol, e poi tagliarli, come si faceva nei racconti di un tempo.
E’ che c’è nei terremoti qualcosa di ancestrale e terribile non solo nella sua violenza, ma anche negli incubi che rilascia quando sta per andarsene. Nella piazza del tempio Vatsala Shikhara, a Bhaktapur, la gente s’era affollata subito dopo le prime scosse come a cercar rifugio davanti a quelle pareti sacre, sotto a quelle magnifiche mura: non c’era più niente però, se non quell’ammasso contorto di pietre e rovine, quella polverosa confusione che rappresentava in fondo tutto il loro sgomento, la loro impotenza.
La violenza della Terra è molto più forte della sacralità dell’uomo. Piansero tutti, abbracciati nella piazza, per il loro dolore e per la loro sconfitta. Il sisma non ha risparmiato niente, ha sbriciolato tutti e sette i siti di Kathmandu proclamati dall’Unesco patrimonio dell’umanità, e poi i templi Hari Shankar e Uma Shamkar, e centri artistici e altri templi.
Vim Tamang, un sopravvissuto di Manglung, un villaggio nella valle di Kathmandu completamente distrutto dalle rabbiose scosse del sisma, ha raccontato al telefono solo la sua impotenza, perché non c’era altro modo per descrivere la sofferenza della morte:
«Siamo stati completamente spazzati via, non è rimasta una casa, neanche una strada, tutto è crollato su se stesso o è rimasto sepolto dalle frane. Noi non possiamo fare niente e abbiamo paura di tutto. Guardiamo il cielo sperando che non piova. Siamo impotenti».
Eppure, nella tragedia della morte, la vita ha risposte inspiegabili. E’ stato salvato un bambino di 22 mesi, fra tutti quei cadaveri. Era sepolto sotto le macerie da un giorno intero, fra le rovine della sua abitazione crollata a Bhakzlapor.
L’hanno raccolto e preso in braccio. Aveva gli occhi aperti, non urlava, non piangeva.
Ma otto giorni dopo i soccorritori hanno estratto vivo addirittura un uomo di 105 anni. Si chiama Franchu Gale e un medico ha detto che è impossibile che abbia potuto resistere. Chissà se è questo che la vita non ci spiega. O che noi non sappiamo spiegare.
Franchu Gale viene da lontano. Nel 1934, quando un altro terremoto di magnitudo 8.0 aveva distrutto il Nepal, facendo più di 10mila vittime, aveva 26 anni ed era rimasto sotto le pietre crollate della sua casa. L’avevano messo già nell’elenco dei morti, quando erano riusciti a tirarlo fuori. Franchu avrà un mucchio di cose da raccontarci.
Tutte le più accreditate ONG e associazioni umanitarie sono in Nepal per aiutare la popolazione. AGIRE, Save the Children, Unicef e altri hanno attivato delle sottoscrizioni a cui si può contribuire liberamente con una donazione.