Sospesi tra due ecosistemi nella foresta delle corrispondenze. Gli stagni dove il cielo scivola dentro e l’acqua sfiora la volta delle vie celesti, saturi di una linfa astrale che sorregge le volontà delle ninfee. E le giungle ritmate di trittici tronchi, “colonne dotate di vita” (ancora il Baudelaire di Spleen et idéal) che tramano spartiti vegetali su fondi mari: accesi, acidi, temperati, tenui, forse cangianti, mai tenui. Le sequenze squadrate delle architetture archeologico-industriali qui attorno (zona Mecenate, est di Milano) si perdono, disciolte, nella pittura di Giovanni Frangi nell’habitat di galleria M77 (dal 25 maggio al 12 settembre 2015). Una scala fa da tramite ai due atti, separando i due momenti, conciliati in un solo ordito, naturale. Un mondo fluido plasmato secondo la matrice della forma-“foglia” dell’artista, sulle orme dell’Urpflanze goethiana (vedi Alles Ist Blatt del 2014).
Primo atto-piano: galleggiare come una delle sue ninfee sparse per i cinque teleri-stagni, lasciandosi cullare da quella specie di liquido amniotico vegetale (a tratti cosmico) nero, “sorpreso” dall’indifferenza (voluta) del bianco. Puro, lattiginoso nella sua densità tutt’altro che impalpabile. Piano terra: tornando nella giungla (con leggi annesse e connesse) giù da basso, attirati e accecati dal giallo magnete che tracima gli spazi di una delle sue betulle esotiche. L’atmosfera vaga tra tronchi e fittoni in un ritmo serrato, intricato di archetipi vegetali che (si) rimbalzano da una parete all’altra. Qui convivono svariate acidità cromatiche che Frangi ha saputo risolvere in una musica collettiva composta da toni, timbri, colori, contrasti, grazie al supporto pittorico di un contraltare malva che fa girare il tutto. Così come il bianco ninfea al piano superiore traccia la soglia di innesto, di intarsio, di incastro. Tangibili tensioni di realtà, echi primordiali che ripulsano sulla carta e sulla tela. Il ritmo della natura scandito secondo la sua Legge: il suo automatismo segnico vegetale, essenza fluida della sua opera omnia da cui prendono forma e “foglia” le sue tele. Pianta segno primigenio, Urpflanze.
Due piani separati, due storie separate, uno spirito in comune.
Una mostra divisa in due situazioni che hanno una loro autonomia. Un loro spirito proprio. Non sono due mondi separati, anche se durante la costruzione della mostra la stanza al primo piano ha preso quasi subito forma, cinque grandi ninfee che dialogassero tra loro da sole, tutte della stessa grandezza, mi ero accorto che rappresentavano un passo in avanti. Una stanza ben definita.
Di sotto invece cos’hai ricreato?
La realizzazione della stanza sotto è stata più complicata. Si poteva articolare in tanti modi diversi, ho cominciato facendo quadri su sfondi rossi diversi che però risultavano subito molto forti rispetto al piano sopra. Se quella di sopra è “semplicemente” una stanza delle ninfee, in quella di sotto invece ho cercato di trovare un’assonanza cromatica tra dei trittici quasi esotici (non pensati come trittici ma esposti come se lo fossero). Ho sempre cercato di evitare una sorta di disordine, le mie mostre sono sempre state quasi armoniose dal punto di vista cromatico, c’è sempre questo fil rouge che non cerca contrasti. A volte però penso che i contrasti servano proprio, come in questo caso. Penso che il risultato sia ottimo. Alla fine credo che sia stato un bene creare due mostre in una.
Mostra “doppia” che segue e completa la serie di cicli di questi anni. Se però per queste ultime esposizioni hai dovuto allestire adeguandoti a ciò che ti circondava -toni, colori, spazi e luci varie (Sala della Meridiana, Orto Botanico, ecc.)- qui invece ti sei confrontato solo con le pareti bianco-asettiche della galleria.
Certo, degli spazi così adatti ad esporre tele come le mie in questo senso mi hanno spinto a presentare delle opere come delle “opere-punto” nella loro semplicità. Ho cercato meno un disegno installativo particolare lavorando proprio sulla energia di una singola opera.
Non ti sei dovuto adattare ad altro e plasmarti ai contrasti del luogo. Anzi, ne hai apportati di tuoi. Hai dovuto “generare” la tua opera, le tue nature, ex novo. Ragionare sulla singola opera al di là del contesto.
Ogni spazio presenta delle situazioni inaspettate che io cerco di sfruttare perché spesso è dal rapporto con l’ambiente che ho trovato un motivo di ispirazione. Questo è uno spazio neutro. Di una particolare bellezza anche poetica. A me piace la periferia. Un lavoro come il mio in uno spazio del genere penso sia proprio perfetto. Acquista un valore aggiunto formidabile. Guardi l’opera in una maniera più fredda. Era quello che volevo.
Contrasti e singolarità dell’opera. Da dove fioriscono sulle tele le ninfee, quattro su sfondo nero, uno su bianco (tutte 2 metri per 3)?
Ho cominciato facendole per la mostra a Padova (Allest ist Blatt/Orto Botanico) in cui erano semplicemente dei disegni neri sulle tele bianche. Durante e dopo la mostra ho fotografato le ninfee all’interno del giardino. Da lì ho cominciato a sperimentare, a farle colorate, su sfondo nero. Sono quindi delle Ninfee padovane.
Avevi già lavorato col nero?
Sì, mi era già capitato in un paio di occasioni: a Siracusa quando ho fatto i quadri con gli Albatros e il mare e a Villa Manin con la serie di San Cristoforo, ma erano esperimenti… La tela nera poi l’avevo utilizzata anche per il MAXXI, tanto è vero che il primo quadro delle ninfee su tela nera è stato fatto su una tela che mi era avanzata.
Cos’hai trovato nel nero che il bianco non ha, oltre la valenza cosmica e astrale?
Proprio a Roma ho cominciato a capire che c’era una valenza interessante, in quanto la sintesi che riuscivo a trovare dipingendo era più rapida perché già il nero chiudeva in qualche modo l’immagine e ne definiva la forma.
Nero, con le sue mille sfumature. E temperature.
Eh sì, il “problema” del nero è quello. A volte ho usato delle tele nere, a volte delle tele nere che ho dipinto io. Evidentemente ognuno di noi pensa che il nero sia nero. Ma quanti sono i neri? Il nero cambia come riflette ovviamente, c’è quello avorio, quello di marte, quello opaco, quello lucido… Frans Hals diceva che ci sono settanta tipi di nero diversi. D’altronde Burri ha lavorato sui neri e le opere ultime son solo nere, ma che movimento hanno quelle opere? Ero già caduto in quel problema per un periodo anche abbastanza lungo ai tempi di Nobu…
La ricerca di equilibri giocando con gli spazi all’interno del quadro, la declinazione del nero nei cellotex (Burri).
Il nero ha quella prerogativa di essere un colore che tu non acquisisci subito, non ti arriva immediatamente perché l’occhio deve abituarsi più lentamente. Ogni tanto anch’io “muovo” del nero.
E il nero fondo delle ninfee è spezzato dalla “sorpresa” lattea che contrasta e la arricchisce.
Ho fatto quella su tela bianca, una sola, per creare proprio una sorta di sorpresa. L’avevo in testa fin dall’inizio.
Imponi il tuo ritmo: all’esterno nell’allestimento, all’interno dell’opera in una sorta di spartito musicale, come quello dei Segni/Costellazioni di Lotteria Farnese per esempio. Qui nei tronchi, come nelle ninfee…
Sono delle forme in cui io cerco di trovare dei momenti in cui hai il ritmo. Devi trovare il ritmo di pieno/vuoto, di cose, alterno segni a spazi vuoti. Ogni tanto mi piace lasciare questi spazi. L’impostazione di questi quadri dev’essere molto veloce e se sbagli l’impostazione sei un po’ fregato, non li recuperi più.
Sembra quasi tu voglia fondere fiori e foglie delle ninfee, così come il cielo e la terra, come se tutto galleggiasse in questo liquido primordiale..
Sì, sono come immagini prese un po’ dall’alto in cui ho cercato di dare un senso di profondità. Quel nero è un nero metà acqua metà cielo. La componente interessante di usare questi fondi è quella di lavorare un fondo come se fosse una superficie astratta in cui il movimento del segno crea questa relazione di contrasto.
Superficie per intero in cui io ci ritrovo dei mondi, in senso letterale. Guarda qua se non affiora una carta geografica del mondo… (vedi foto sotto)
Ne avevo sentite di ogni, tipo che il nero non è acqua o le ninfee non sono ninfee, ma questa del “mondo” non l’avevo ancora sentita. Vorrà dire che mi devo confrontare con Boetti ora…
Tesserai delle ninfee sulla mappa… ma prima -spostandoci idealmente al piano di sotto della galleria e imbattendoci nello spaccato di “Bel Air” (vedi foto sopra) sfondo giallo acido “immediato e potente”– torniamo sulla terra (a piano terra) nella selva di rami, foglie, tronchi. Le forme che prendono fluidamente corpo (Heliconia, Ansedonia…) sono dei fittoni, delle radici, quasi che l’esteriore diventi interiore, il tronco “rizomatico”. Fondersi tra due livelli/mondi, dentro terra, fuori terra. Un attaccamento alla materia terra, alla realtà, che guarda anche al primordiale, il vergine..
Potrebbe essere proprio così. Viene fuori tutto in modo automatico penso.
Una serie di tronco-fittoni (BX, AZ, RG – un po’ lo richiama anche il nome) mi sembrano dei negativi, opere colpite dai raggi IR, come se avessi passato le tele ai raggi o fossero dei calchi.
C’è questo fatto: più di dieci anni fa ho passato un periodo abbastanza lungo a San Francisco, dove feci anche una mostra, e ho lavorato in un laboratorio dove ho eseguito una serie di monotipi. Il fascino del monotipo è che tu lavori su una superficie rigida, poi attraverso un foglio bagnato stampi quello che hai disegnato e il risultato è una sorta di impronta.
Esatto.
Un procedimento che può essere simile ad una stampa ma che è completamente diverso. Quindi di quello che tu hai fatto resta solo l’impronta. Il secondo step del monotipo è il cosiddetto ghost, il fantasma: la seconda prova, la stessa immagine più tenue appunto come un fantasma. Fatto sta che ogni tanto ho provato a farlo anche qua. Mi ha sempre interessato questo fatto dell’impronta, come se fosse un’immagine in cui dai una sensazione particolare, in cui riduci un intervento gestuale e lasci solo un segno. L’impronta di una bestia che cammina sulla neve e lascia il segno che segna.
Un’impronta, un’impressione.
È come se volessi realizzare dei quadri come fossero delle impronte. Quelli azzurri, per esempio, sembrano quasi delle stampe, delle cianografiche. Le ho dipinte secondo tre concetti: 1) Fondo azzurro più chiaro; 2) Più scuro; 3) Blu-verdastro. Bastano pochi componenti per creare un’immagine che abbia una sua uniformità.
Oltre l’azzurro, il verde, il rosso, il giallo. Meno “impronta”, più un segno e colore marcati. Hai dovuto far andare d’amore e d’accordo cromie più “naturali” con quelle più “acide”.
Avevo bisogno di spostare un po’ il mio lavoro. C’è stato un periodo in cui facevo dei quadri più tenui ma l’uso del colore così un po’ spregiudicato mi viene abbastanza automatico, può essere un valore aggiunto.
Palese un richiamo “astratto” in alcune opere, vedi ad esempio le ninfee Urpflanze.
È un problema che si è posto spesso, è un mio modo di risolvere delle immagini. Parto sempre da delle immagini che poi vanno ad assumere un’apparenza quasi astratta.
Scomodiamo De Stael, pittore che entrambi amiamo.
Gigante. De Stael resta un grande pittore figurativo. Dietro ad “Agrigento in estate” vedi un mondo. Io parto sempre da quello, non riuscirei a livello grammaticale a pensare un quadro informale. Mi è capitato una volta tanti anni fa di dipingere come se fossi un pittore informale, suggestionato da certi pittori austriaci neo informali. Mi ricordo che per alcuni mesi avevo scelto quella strada, poi però mi ero accorto come non appartenesse al mio dna, nel senso che non riuscivo a capire il limite.
La consapevolezza dell’artista.
Certo, quella di capire il momento in cui devi dire “Ok, fatto”, è difficilissimo e in quel caso non riuscivo.
La “mano intelligente” che si ferma quando l’immagine è palese. Frutto del “tuo” segno automatico.
Ora mi accorgo e capisco proprio a livello automatico quando devo staccare. In quel caso non me ne accorgevo, per cui c’era proprio un limite. Il fatto di capire adesso che devo staccare è perché nella mia testa quell’immagine è chiara. Dopo non m’interessa che sia chiara per gli altri.
La Natura è un tempio dove colonne dotate di vita
lasciano talora uscire parole incerte e confuse;
l’uomo attraversa foreste di simboli
che l’osservano con sguardi familiari.
Come echi prolungati che si confondono da lontano,
in un’unità oscura e profonda,
vasta come la notte e come la luce,
i profumi, i colori e i suoni si rispondono a vicenda.
(da Corrispondances, Spleen et idéal – Baudelaire)