Impossibile per me recensire l’arte di Giovanni Frangi, quasi senza possibilità di smentita il migliore e più colto pittore della sua generazione e, mi sento di affermarlo con coscienza, non solo della scena italiana, soprattutto dopo aver visto come si dipana ultimamente il blasonatissimo e costosissimo Peter Doig, più anziano del Nostro di neppure un mese, a Palazzetto Tito a Venezia. Impossibile, ma ci proverò, cercando di mantenere il giudizio lucido e oggettivo, mentre vorrei essere partigiana e faziosa.
Questa bella mostra, aperta con fiammeggiante vernice il 25 maggio scorso presso i generosi spazi della Galleria M77 di Via Mecenate, rappresenta il ritorno di Frangi a Milano, dopo una lunga assenza dal capoluogo lombardo, punteggiata purtuttavia di importanti appuntamenti “preparatori”. Di fatto, come spesso accade con il pittore milanese, questa nuova serie di paesaggi certamente figurativi ma del tutto innaturali dichiaratamente recupera e rielabora alcuni spunti tematici e stilistici presentati nelle recenti esposizioni Lotteria Farnese presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Alles ist Blatt presso l’Orto Botanico dell’Università di Padova e Mollate le vele. Uno stendardo per Jonas presso il MAXXI di Roma.
Un sistema di “scatole cinesi” a cui Frangi ci abitua da tempo, un inanellarsi concettuale senza soluzione di continuità da un tema sviluppato secondo determinate prospettive figurative (quello, amatissimo, dei giardini, ad esempio, ma anche dei boschi oppure dei territori in via di progressiva antropizzazione) a una tecnica che non abbandona mai il proprio tratto distintivo.
Tecnica e tema portante (oltre all’immancabile lavoro ad situm, tale per cui tutte le mostre di Giovanni sono concepite quale preciso percorso e preparate espressamente per la sede ospitante, che spesso informa di sé la creazione delle opere) sono la solida base su cui Frangi costruisce il proprio straordinario repertorio di immagini di viaggi e peregrinazioni, cercando – a ogni cambio di serie – una parcella di innovazione che però non deroghi dai diktat dell’artista e non spiazzi la sua stessa ricchissima sensibilità espressa attraverso incommensurabilmente minime variazioni timbriche.
Frangi si costringe all’interno di parametri imposti dalla sua incrollabile poetica fondata sulla pura fede nell’artigianalità e nella scienza pittorica (quello che, volgarmente ma non grossolanamente, nomasi mestiere): non tenta strade aliene e non desidera stupire alcun pubblico con ricerche ardite se non quelle impercettibili ai più di un cambio di fondale, di un’adozione quasi sconsiderata e apparentemente casuale di un colore in pennello. Ottime, in questo senso, le ultime prove proprio in Alles ist Blatt a Padova, laddove alcune serie del passato – come la fondamentale Pasadena – si coniugano con l’uso protagonistico della grande tela preparata a gesso candido.
Il bicolorismo e l’installazione studiatamente concettuale sembravano definire la strada da percorrere almeno sino a queste “giungle” urbane di Via Mecenate.
A Milano, invece, Frangi torna alla tradizione più consumata dell’ordinamento consueto in parete, senza né interagire con lo spazio architettonico ospitante (come invece accadeva proprio nelle mostre citate e ancora più nel notevole intervento per e nella Chiesa di Santa Gianna Beretta Molla a Trezzano sul Naviglio) né evocare una limitrofia anche solo visiva con quello esterno.
Il Frangi milanese si e ci rassicura ripensando il tema del giardino e del bosco (nel caso dei dipinti al piano terreno, dei dintorni di Ansedonia) in chiave antroposofica, se così si può dire. Sono boschi e laghi di ninfee pervasi di uno spiritualismo convinto, tale da controbattere con grande efficacia al fenomeno del dato oggettivo della tela, che raramente si offre così percepibile, specie negli esemplari migliori, ovvero il grande trittico di quadri “rossi” del 2014 composto da Tarajal, Heliconia Paradise I e Ansedonia I e del solingo e solare Bel Air del 2015, mentre al piano superiore è difficile, ma possibile, stabilire il primato dell’imponente Ninfee III (2014-2015) e dei piccoli ma preziosi Alles ist Blatt III e Alles ist Blatt IV del 2015.
La mano è sicura, anche se, in queste opere e forse perché davvero – alla fine – più metafisiche che astratte nel loro spinto figurativismo, sembra, nelle prove migliori, più coinvolta ed emozionata. Il tratto è breve e impressionistico come sempre, ma indulge in una misurata perfezione del gesto che è sempre sul crinale dell’autocompiacimento (senza davvero rovinare in esso). Il colore è ritrovato, esplosivo, addirittura, con un raro e forse non casuale recupero del malva, protagonista solo nelle ben più antiche opere sulle pianure lombarde.
Mi sembra di percepire, in queste ultime tele, un tentativo di ribadire, oltre alla propria poetica, anche la necessità di identificarsi e qualificarsi hic et nunc. Quasi Frangi aspirasse a ottenere un punto fermo, proprio laddove sembri tornare alle radici e rifiutare una svolta più essenziale (per non abusare dell’improprio “minimale”) che pareva impostata con convinzione da tempo. Straordinario il pittore (e l’artista in genere) che rivede con sicurezza ciò che lo ha mosso a creare dopo un lungo percorso di ricerca. Straordinario il pittore che non rinnega la propria esuberanza poetica per l’opaca allure dei tempi (ovvero ciò che rimprovero al Doig inizialmente citato). Perché la pittura senza confronti di Frangi può anche, a volte, indulgere nella propria precisa pulizia, nel nitore troppo compito, nello studio che diventa, se non trattenuto, consumata e facile abitudine. Per Giovanni, il pericolo di trascinare il pennello oltre il limite è sempre in agguato, e credo egli conosca bene il fascino perverso di questa illusoria eleganza mondana che forse in troppi pretendono da lui.
La stessa eleganza (“elegàntsija”?) che si incontrava distribuita e accalcata durante la vernice in Via Mecenate, al cospetto dei maggiori galleristi d’Italia (sia promotori di Frangi sia semplici, ma sinceri amici), in una confusione sorridente e composta delle grandi occasioni. Lo sciame d’invitati ha poi proseguito la serata riversandosi nello studio dell’artista, in Via Spartaco, addobbato in efficace semplicità per accogliere sin dalla bella corte profumata di sontuoso rhyncospermum i troppi amici e collezionisti. Nessuno, temo, in quel baillamme si è accorto della presenza dei piccoli Pasadena appesi in defilata ma allusiva vista, all’interno della stanza di servizio, semichiusa ma, per la verità, accessibile. Una firma definitiva, insieme a una minuta e lieve ma incisiva carta di montagne rosse e nere con opaca griglia a nido d’alveare (come se api stanche avessero preferito quel panorama e non altri) appesa in un angolo buio, che illumina sulle priorità del Nostro. Per Giovanni Frangi l’amore per l’Arte è imprescindibile dalla lettura analitica e formativa della Natura, mentre la tecnica (anche quella incisoria, di cui è maestro e secondo i parametri formali della quale, come per Morandi, andrebbero sempre considerate le sue opere maggiori), la tecnica perfettissima di cui talvolta troppo si compiace ma a cui sempre si adegua con umiltà, costituisce la spina dorsale del suo stile. Un razionale intrappolato nella necessità compulsiva di ri-creare sempre lo stesso scenario attraverso piccole variazioni dal primo tema, come per confermare a se stesso, ogni volta di più, che il suo ruolo di intermediario per noi verso il Sublime è questo e non un altro.
GIOVANNI FRANGI – LA LEGGE DELLA GIUNGLA
MILANO – Galleria M77 – Via Mecenate 77
dal 25 Maggio al 12 Settembre 2015
02 84571243
info@m77gallery.com
m77gallery.com
Saggio in catalogo di Michele Bonuomo
Testo e immagini di Cristiana Curti per ArtsLife